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COVID-19

Sintomi

Quali sono i sintomi del COVID-19?

I sintomi di COVID-19 comprendono:

Il virus SARS-CoV-2 causa un'infezione che può decorrere senza sintomi clinici (infezione asintomatica), con pochi sintomi (infezione paucisintomatica), fino ad una forma di malattia più grave caratterizzata da polmonite e insufficienza respiratoria, e, in alcuni casi, porta ad uno stato di infiammazione diffusa con compromissione multiorgano e morte. La forma lieve, simile all’influenza, può evolvere nella forma grave di malattia, anche improvvisamente, soprattutto se il paziente presenta patologie croniche pre-esistenti come problemi cardiovascolari, diabete, malattie del fegato o malattie respiratorie (Ministero della Salute, 2020).

Durante il primo mese di epidemia in Cina (casi notificati al 28 gennaio 2020), circa il 20% dei pazienti che hanno contratto l’infezione COVID-19 hanno sviluppato la forma grave di malattia (World Health Organization – WHO, 2020a). L’analisi dei primi casi cinesi accertati (41 pazienti) ha evidenziato il seguente decorso della malattia: esordio dell’infezione con febbre, tosse, mialgia o stanchezza; meno comuni, la comparsa di catarro, mal di testa, emissione di sangue con la tosse (emottisi) e diarrea. Il ricovero ospedaliero avviene circa una settimana dopo l’inizio dei sintomi ed ha interessato tutti i pazienti del campione. Quindi compaiono: difficoltà respiratoria (dispnea), in media dopo 8 giorni, in circa la metà dei pazienti; sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) nel 27% dei pazienti, in media dopo 9 giorni; ricovero in terapia intensiva per il 39% dei pazienti dopo una media di 10-15 giorni. La sindrome da distress respiratorio acuto è un’emergenza medica caratterizzata da edema ai polmoni, grave difficoltà respiratoria e ipossia refrattaria all’ossigenoterapia. Circa il 25% dei pazienti ha manifestato leucopenia (conta dei globuli bianci < 40 x 109/L) e il 63% linfopenia (conta dei linfociti < 1 x 109/L). Quattro dei 16 pazienti ricoverati in terapia intensiva hanno sviluppato infezioni secondarie. Al momento del ricovero ospedaliero, il 98% dei pazienti ha evidenziato interessamento di entrambi i polmoni e tutti i pazienti hanno sviluppato polmonite. Le complicanze hanno compreso ARDS (29%), danno cardiaco acuto (12%) e infezioni secondarie (10%). Quattro pazienti (10%) hanno richiesto il supporto della ventilazione meccanica invasiva, di cui due hanno evidenziato ipossiemia refrattaria. La letalità nel campione analizzato è stata pari al 15 % (6 pazienti su 41) (Huang et al., 2020).

Sulla base dei dati disponibili a metà marzo 2020. prima ondata pandemica, il quadro dei sintomi più frequenti non si è discostato da quello riportato nello studio dedicato ai primi pazienti cinesi. Il sintomo riportato con maggior frequenza è stata la febbre (88%), seguita da tosse secca (68%), affaticamento (38%), produzione di catarro (33%), difficoltà respiratoria (19%), mal di gola (14%), mal di testa (14%9, dolore ai muscolo o alle ossa (15%), vomito (5%) e diarrea (4%). Sulla base invece dei dati raccolti nel Regno Unito tra giugno 2020 e gennaio 2021, approssimativamente corrispondenti alla seconda ondata pandemica, la tipologia dei sintomi più frequenti è leggermente variata, perché oltre a febbre, tosse, brividi, perdita dell’appetito e dolori muscolari, sono stati osservati perdita o alterazione dell’olfatto e perdita o alterazione del gusto, spesso segnalati come unici sintomi nei pazienti positivi al COVID-19 (React-1, Real-time Assessment of Comunity Transmission-1).

Nelle vie respiratorie il virus SARS-CoV-2 è rilevabile 1-2 giorni prima della comparsa dei sintomi e persiste fino a 7-12 giorni dopo nei casi di infezione moderata e fino a 2 settimane nei casi gravi. I ricercatori hanno individuato l'RNA virale anche nelle feci, nelle urine e nella saliva, nel sangue intero e nel siero. Nelle feci l'RNA virale è stato rilevato a partire dal quinto giorno dall'inizio dei sintomi fino a 4-5 settimane dopo. Nelle vie respiratorie (tampone nasofaringeo), in pazienti adulti, l’RNA virale è stato identificato fino a 37 giorni dopo la comparsa dei sintomi: il rilascio di RNA virale, comunque, non equivale direttamente a infettività (Epicentro, 2020a).

Un sintomo sottostimato: la congiuntivite
A febbraio 2020 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato una prevalenza di congiuntivite dell'1% dei casi, mentre sulla base di un'analisi, pubblicata a maggio dello stesso anno, che ha riguardato più di 2400 articoli, il dato è risultato pari al 32%. È emerso inoltre che non di rado il dato clinico - segni o sintomi di congiuntivite - si discosta dal dato di laboratorio - presenza di RNA virale nel tampone congiuntivale. La comparsa di congiuntivite è risultata inoltre indipendente dalla gravità della malattia, perché è stata osservata sia in pazienti senza complicanze sia in quelli in terapia intensiva. In alcuni casi la congiuntivite è comparsa prima dei sintomi sistemici suggerendo la possibilità di una trasmissione del virus anche per via congiuntivale (Aiello et al., 2020).

COVID-19 e la “tempesta delle citochine”
L'infezione da SARS-CoV-2, come già osservato, può subire un peggioramento repentino tale da richiedere il ricovero in ospedale. Le manifestazioni cliniche più gravi associate a COVID-19 dipendono dagli effetti del virus sul sistema immunitario. SARS-CoV-2, infatti, è in grado di interferire con la cascata di eventi che portano all'attivazione del sistema immunitario provocando uno stato stato di infiammazione acuta violenta, molto simile a quella nota come “tempesta delle citochine” - stato di iperattività infiammatoria, caratterizzata da una produzione eccessiva e non coordinata di sostanze proinfiammatorie (citochine) - con disfunzione multiorgano ed elevato tasso di mortalità.

L'iperinfiammazione da Covid-19 però si differenzia dalla classica “tempesta delle citochine” per la natura delle citochine coinvolte e l’infiammazione prodotta. I pazienti con forme gravi di COVID-19 mostrano concentrazioni elevate di interleuchina 6, interleuchina 13 e TNFalfa – tutte citochine che amplificano l'infiammazione e il danno tissutale – e di interleuchina 5 e 7, citochine associate alla risposta immunitaria contro parassiti e funghi. Inoltre i ricercatori hanno riscontrato elevati livelli di chemiochine, citochine che “guidano” le cellule immuntarie là dove sono necessarie, e un’attivazione eccessiva di cellule del sistema immunitario quali monociti, macrofagi e neutrofili. Hanno infatti osservato concentrazioni straordinariamente elevate di monociti e macrofagi nei tessuti polmonari dei malati gravi di COVID-19, e di neutrofili nel sangue dei pazienti ricoverati (elevate concentrazioni di neutrofili nel sangue il primo giorno di ricovero sembrerebbero correlare con il passaggio successivo in terapia intensiva). In sintesi, sulla base dei dati disponibili il coronavirus SARS-CoV-2 sembrerebbe in grado di “attivare il sistema immunitario contro se stesso” (Iwasaki, Wong, 2021).

Alla luce del ruolo giocato dall'iperinfiammazione nell'andamento clinico di COVID-19, parte della ricerca scientifica si è focalizzata sulla possibilità di “prevenire” tale infiammazione, testando farmaci quali tocilizumab, sarilumab, anakinra, canakinumab e colchicina. Ognuno di questi farmaci blocca specifiche citochine (ad esempio l'interleuchina-1 e 6) oppure l'innesco del processo infiammatorio (ad esempio la colchicina può inibire NLRP3, complesso multiproteico, che una volta attivato innesca una risposta infiammatoria in diverse patologie autoimmuni). Sfortunatamente, la verifica sul campo di alcuni di questi farmaci (ad esempio il tocilizumab) non ha dato gli esiti sperati.

L'impatto di COVID-19 sul cuore
In una percentuale limitata di persone (7%) con COVID-19 il virus SARS-CoV-2 attacca il cuore: la percentuale aumenta (22%) in caso di infezione grave. I ricercatori non sanno se gli effetti sul cuore siano causati dall’azione diretta del virus oppure dipendano dall’infiammazione acuta (tempesta di citochine) secondaria all’infezione che porta alla distruzione delle cellule del cuore (apoptosi dei miociti).

I ricercatori hanno osservato un aumento considerevole dei livelli di un biomarcatore di infiammazione, la troponina cardiaca I ad alta sensibilità, nei pazienti ricoverati e poi deceduti per COVID-19, ma non in quelli sopravvissuti, e un andamento analogo anche per la troponina T, che insieme alla troponina I, è indicatore di danno miocardico. In uno studio effettuato in Cina la mortalità durante il ricovero ospedaliero è risultata maggiore nei pazienti con elevati livelli di troponina T anche senza malattia cardiovascolare preesistente (mortalità 7,62% nei pazienti senza malattia cardiovascolare preesistente e con valori di troponina T nella norma; 13,33% nei pazienti con malattia cardiovascolare preesistente e troponina nella norma; 37,50% nei pazienti senza malattia cardiovascolare preesistente ma con elevati livelli di troponina T; 69,44% nei pazienti con malattia cardiovascolare ed elevati livelli di troponina T). Nello studio la concentrazione plasmatica di troponina T correlava con i livelli di proteina C reattiva (marker di infiammazione) e con il frammento N-terminale del peptide natriuretico cerebrale (NT-proBNP) (BNP è marker di insufficienza cardiaca) (Guo et al., 2020).

L'aumento della troponina suggerisce la possibilità che il danno cardiaco sia conseguente alla tempesta di citochine, ma sono stati riportati pazienti con COVID-19 con lesioni acute al cuore in assenza di patologie cardiache preesistenti.

Comunque l'incidenza di miocardite fulminante e shock cardiogeno osservata finora nei pazienti con COVID-19 è molto bassa (Clerkin et al., 2020).

Covid-19 e sintomi neurologici
il virus SARS-CoV-2 provoca sintomi neuropsichiatrici per infezione diretta delle cellule nervose e attraverso il rilascio di sostanze proinfiammatorie.

I sintomi neurologici possono interessare fino al 35% dei pazienti con COVID-19 e la loro gravità correla con la severità dell'infezione (Mao et al., 2020). In alcuni pazienti i sintomi neurologici, quali mal di testa severo o difficoltà nella deambulazione, possono anticipare le manifestazioni tipiche della malattia. I più comuni sintomi neurologici associati a COVID-19 comprendono vertigini, mal di testa (cefalea), sensazione di ottundimento, alterazione o perdita del gusto, alterazione o perdita dell'olfatto. Gli ultimi due sono molto frequenti, soprattutto nei pazienti asintomatici, e possono precedere i sintomi respiratori caratteristici dell'infezione da SARS-CoV-2.

I pazienti con COVID-19 possono manifestare, soprattutto in caso di malattia grave, ictus ischemico o emorragico (secondario a coagulopatia), trombosi venosa, encefalopatia, encefalite, encefalomielite, mielite, convulsioni febbrili, sindrome di Guillan-Barré e di Miller-Fisher, meningite, miastenia gravis (Guadarrama-Ortiz et al., 2020). In alcuni casi le manifestazioni neurologiche seguono la fase acuta dell'infezione, come conseguenza degli effetti del virus SARS-Cov-2 sulla risposta immunitaria sistemica.

Oltre a patologie neurologiche, COVID-19 può provocare sintomi psichiatrici (insonnia, ansia, distrubi della memoria e comportamentali, depressione e confusione mentale) nella fase acuta dell'infezione e durante la remissione (Rogers et al., 2020).

Ma come entra il virus SARS-CoV-2 nel sistema nervoso? Le ipotesi formulate suggeriscono diverse vie di accesso: 1) la mucosa nasale e il bulbo olfattivo; 2) le cellule endoteliali dei vasi cerebrali; 3) il sistema nervoso gastrointestinale; 4) la barriera ematoencefalica resa più permeabile dall’infiammazione diffusa indotta da COVID-19 (Khatoon et al., 2020)

Covid-19 e sintomi a lungo termine
COVID-19 è una malattia che può dare conseguenze a lungo termine. In alcuni casi si tratta di sintomi che persistono anche dopo la guarigione (in questo caso si dovrebbe parlare di “long COVID”), in altri di sintomi o condizioni comparsi in epoca successiva all'infezione (in questo caso sarebbe più opportuno parlare di “post COVID”). Comunemente ci si rifesce ad entrambe le tipologie di sintomi con il termine “sindrome post-Covid”. La sindrome post-COVID è indipendente dalla gravità della malattia: circa il 30-40% dei pazienti con COVID-19 presenta sequele per molti mesi (Yelin et al., 2021). I sintomi a lungo termine riportati con maggior frequenza comprendono stanchezza persistente, fiato corto, dolori muscolari e/o osteoarticolari e sindrome ansiosa; in chi ha avuto la polmonite può persistere un quadro radiologico di fibrosi polmonare.

Anche i bambini possono manifestare sintomi persistenti da COVID-19. Un'analisi condotta su 129 bambini ha evidenziato la persistenza di almeno un sintomo dopo 4 mesi dalla diagnosi nel 52,7% dei pazienti, la persistenza di 1-2 sintomi nel 35,7% e di 3 o più sintomi nel 22,5% (Buonsenso et al., 2021).

COVID-19: Età e sesso
L'età e il sesso sono due fattori importanti che influenzano il tasso di letalità (morti/contagiati) dell'infezione COVID-19. In Italia, l'analisi epidemiologica effettuata dall'Istituto Superiore di Sanità, relativa a 10.026 pazienti deceduti e positivi a COVID-19, aggiornata al 30 marzo 2020 (prima ondata pandemica), ha evidenziato un'età media dei deceduti di 78 anni, di cui il 69,2% uomini e il 30,8% donne. La percentuale di morti per fascia di età è risultata pari allo 0,02% nell'intervallo 20-29 anni, 0,2% nell'intervallo 30-39 anni, 0,9% nell'intervallo 40-49, 3,7% nell'intervallo 50-59 anni, 11,6% nell'intervallo 60-69 anni, 34,5% nell'intervallo 70-79 anni, 39,8% nell'intervallo 80-89 anni e 9,4% nell'intervallo 90 anni o più.

Nelle fasi successive della pandemia - cioè la fase di bassa incidenza corrispondente al periodo estivo giugno-settembre 2020 e la seconda ondata, iniziata approssimativamente nel mese di ottobre 2020 e continuata fino alla primavera innoltrata del 2021 - sostanzialmente il profilo demografico delle persone decedute per COVID-19 si è mantenuto costante, con un'età media dei positivi e deceduti di 81 anni, con una percentuale di donne aumentata al 43,9% e una percentuale di pazienti deceduti con età inferiore a 50 anni, al 30 marzo 2021, dell'1,1% (Epicentro, 2021).

COVID-19: comorbilità
La presenza di una o più patologie preesistenti (comorbilità) all'infezione virale da SARS-CoV-2 aumenta il rischio di morte (fattore prognostico negatico di mortalità). L’analisi dell'Istituto Superiore di Sanità di 6992 cartelle cliniche di pazienti deceduti ha rivelato un tasso di mortalità del 3% per pazienti con zero patologie, 11.7% per pazienti con una patologia, 18.5% con due patologie, 66,9% con tre o più patologie (Epicentro, 2021). Tra le patologie, quelle più frequentemente osservate sono state ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2, cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale e insufficienza renale cronica; a seguire demenza, scompenso cardiaco broncopneumopatia cronica ostruttiva, cancro, ictus, obesità, insufficienza respiratoria, epatopatia cronica, malattie autoimmuni, dialisi (Epicentro, 2021).

COVID-19: sindrome di Kawasaki nei bambini
Le evidenze scientifiche disponibili suggeriscono un andamento decisamente più benigno dell'infezione da SARS-CoV-2 nei bambini e nei ragazzi (tasso di letalità 0-15 anni: 0,06%). In alcuni giovani pazienti (Europa, USA) è stata però osservata una sindrome infiammatoria acuta multisistemica con alcune caratteristiche sovrapponibili alla malattia di Kawasaki. La malattia di Kawasaki è caratterizzata da un'infiammazione dei vasi di piccolo e medio calibro (vasculite sistemica) che si manifesta nei bambini con età compresa tra 1 e 5 anni e il cui andamento dipende dal coinvolgimento o meno delle coronarie. Si ritiene che la malattia abbia un'origine infettiva, anche se l'agente causale non è stato ancora individuato, e che alcuni fattori genetici ne aumentino la suscettibilità.

L'ECDC (il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) ha segnalato 230 casi di una sindrome multisistemica con alcune caratteristiche della malattia di Kawasaki in pazienti di età compresa tra 7 e 16 anni affetti da COVID-19. Le manifestazioni cliniche di questa sindrome sono comparse 2-4 settimane dopo il picco di infezione da SARS-CoV-2 (dati italiani e inglesi) per cui i ricercatori hanno ipotizzato che l'infezione virale possa agire come grimaldello di attivazione della malattia infiammatoria. I casi clinici hanno risposto abbastanza bene alla somministrazione di corticosteroidi sistemici, immunoglobuline e antagonisti del recettore dell'interleuchina 1 (anakinra). Secondo l'ECDC il rischio di sviluppare la sindrome infiammatoria multisistemica nei bambini è basso (Istituto Superiore di Sanità - ISS, 2020a).

COVID-19 e inquinamento atmosferico
La società italiana di epidemiologia ambientale ha ipotizzato la possibilità che l'inquinamento atmosferico, in particolare il particolato PM10 e PM2,5, possa avere un ruolo nella diffusione del virus SARS-CoV-2 (Società Italiana di Epidemiologia Ambientale – SIMA, 2020). Altre istituzioni hanno però sottolineato la mancanza di evidenza scientifiche a questo proposito (Associazione Italiana Medici per l'Ambiente – ISDE, 2020; Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale Veneto – ARPAV, 2020).

Sulla relazione inquinamento-salute, i dati di letteratura disponibili suggeriscono un legame tra esposizione prolungata al particolato atmosferico e riduzione delle difese immunitarie verso batteri e virus. Il particolato atmosferico può interferire con la risposta immunologica dell'epitelio bronchiale, attraverso processi infiammatori e disfunzioni dell'endotelio vasale, causando un peggioramento di malattie croniche (asma, broncopneumopatia cronica) e infezioni respiratorie acute nei bambini (Nenna et al., 2017; Ghio, 2014; Mehta et al., 2013). Negli animali di laboratorio, il PM2,5 influenza l'immunità polmonare, riducendo la soglia di “resistenza” verso il virus influenzale (Ma et al., 2017). Sono decisamente più limitate le evidenza scientifiche relative alla possibilità che il particolato atmosferico possa facilitare il trasporto di patogeni, possa cioè agire come “veicolo” di infezione. Due studi condotti in Cina (Pechino) hanno evidenziato la presenza di patogeni nel particolato atmosferico. Il primo studio ha evidenziato la presenza di batteri (93% per PM10 e 95,5% per PM2,5), eucarioti (2,2% per PM10, 1,5% per PM2,5), archeobatteri (0,2%) e virus (4,5% per PM10, 2,8% per PM2,5). Una composizione simile è stato riportata anche nel secondo studio: batteri (86% per PM10, 81% per PM2.5), eucarioti (18% e 13%), archeobatteri (0.8%) e virus (0.1%) (Qin et al., 2020; Cao et al., 2014). Nei due studi, la quantità di patogeni nel particolato è risultata dipendere dalla temperatura e dall’umidità ed è risultata maggiore nella stagione invernale e in corrispondenza di eventi importanti di smog.

Per quanto riguarda il virus SARS-CoV-2, il rischio di infezione all’aria aperta attraverso l’inalazione di particolato atmosferico “infetto” è ritenuta molto bassa per la permamenza limitata del virus nell’areosol (inferiore alle 3 ore) e la quantità di virus trasportata: potrebbe essere diversa la situazione in un ambiente chiuso o in condizioni di affollamento (van Doremalen et al., 2020; Re et al., 2020).

COVID-19: ACE-Inibitori e sartani
La scoperta che il virus SARS-CoV-2 utilizza il recettore ACE2 per entrare nella cellula ospite ha sollevato la questione sulla sicurezza d’uso dei farmaci ACE-inibitori o sartani (bloccanti del recettore per l'angiotensina). L'idea che tali farmaci potessero favorire la penetrazione del virus nell'organismo derivava dall’osservazione che, in vitro, l’esposizione a lisinopril (ACE inibitore) e losartan (sartano) aumentava, rispettivamente di 5 e 3 volte, l’espressione del gene per il recettore ACE2 cardiaco (Ferrario et al., 2005). Diversi studi condotti sul virus della SARS sembrano suggerire che non sia così. Il legame del virus con il recettore ACE2 porta ad una riduzione (down-regulation) dell'espressione del recettore, che ha come conseguenza un aumento della concentrazione di angiotensina II (il recettore ACE2 bilancia la concentrazione di angiotensina II convertendola in angiotensina 1-7). A livello polmonare un’eccessiva quantità di angiotensina II aumenta la permeabilità vascolare e la formazione di edemi. Paradossalmente, quindi, gli ACE-inibitori e, soprattutto, i sartani determinando un aumento dei livelli di ACE2, potrebbero avere effetti protettivi piuttosto che “nocivi” (maggiore conversione di angiotensina II in angiotensina 1-7). Sulla base dei dati disponibili non ci sono evidenze scientifiche né in un senso né nell'altro in merito al ruolo di queste due classi di farmaci nei pazienti con COVID-19 (Società Italiana di farmacologia – SIF, 2020). Le Agenzie regolatorie e le società scientifiche raccomandano pertanto ai pazienti in terapia con questi farmaci di non sospenderli.

COVID-19: Il tasso di letalità
Il tasso di letalità (percentuale di morti sul totale dei contagiati) da COVID-19 è un dato che ha presentato differenze importanti da paese a paese.

Nella prima fase di pandemia, prendendo come riferimento i dati disponibili al 29 marzo 2020 -data in cui la Cina sembrava uscita dall'epidemia, mentre l'Europa era in piena crisi pandemica - in Cina, il tasso di letalità apparente risultava pari al 4%, in Italia (92.472 casi confermati e 10.023 decessi) al 10,8%; in Spagna (72.248 contagiati e 5.690 deceduti), al 7,9%; in Germania (52.547 contagiati e 389 morti) allo 0,7%; in Francia (37.145 contagiati e 2.311 deceduti) al 6,2%; in Iran (38.309 contagi e 2.640 morti) al 6,9% e negli USA (103.321 contagi e 1.668 morti) all'1,6%. Quasi esattamente due mesi dopo, al 27 maggio, il tasso di letalità per gli stessi paesi risultava pari al 5,5% in Cina, al 14,03% per l'Italia (32.877 deceduti su 230.158 contagiati), all'11,4% per la Spagna (26.834 deceduti su 235.400 contagiati), al 4,6% per la Germania (8.302 deceduti su 179.002 contagiati), al 19,9% per la Francia (28.379 deceduti su 142.482 contagiati), al 5,4% in Iran (7.451 deceduti su 137.724 contagiati), al 6% per gli Stati Uniti (97.529 deceduti su 1.634.010 contagiati) (World Health Organization – WHO, 2020d).

Differenze nella rilevazione dei contagi, percentuale della popolazione anziana sul totale (le persone anziane sono più suscettibili a forme gravi di COVID-19), specificità dei sistemi sanitari nazionali (disponibilità di terapie intensive, ventilatori, dispositivi di protezione individuali) hanno in parte influenzato i tassi di letalità nei vari paesi durante la prima ondata di pandemia (primavera 2020). In questa prima fase, in Italia, l'organizzazione regionale del servizio sanitario ha avuto un peso significativo nella gestione dei malati. In Lombardia, la regione inizialmente più colpita da COVID-19, è probabile che l’insufficiente gestione territoriale dei malati abbia causato un sovraccarico delle strutture ospedaliere, che involontariamente, hanno funzionato come “un amplificatore” dell'infezione. Questa considerazione spiegherebbe perché, nel nostro paese, il tasso di letalità da COVID-19 sia stato notevolmente diverso da regione a regione durante la prima ondata pandemica, discostandosi in maniera significativa dal dato OCSE (letalità: 6%): 12,32% (Italia), 17.6% (Lombardia), 8.9% (tutte le regioni italiane esclusa la Lombardia) (dati della Protezione Civile aggiornati al 5 aprile 2020).

Durante la seconda ondata pandemica, ottobre 2020-aprile 2021, il tasso di letalità in Italia è risultato più basso, pari al 2,4% per i casi diagnosticati a ottobre 2020. Sulla base del numero di contagiati (3,717,602) e dei decessi (112.861) alla data del 9 aprile 2021, il tasso di letalità per l'Italia si attestava al 3,0% (Statistiche coronavirus in Italia, 2021).