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Colite Ulcerosa

Farmaci e terapie

Quali farmaci per la Colite Ulcerosa?

La colite ulcerosa può essere trattata con i farmaci o per via chirurgica. L’obiettivo è quello di migliorare la qualità di vita del paziente determinando la remissione della malattia, la prevenzione/trattamento delle complicanze e degli effetti collaterali associati al trattamento. Nei pazienti con colite ulcerosa è stato osservato che la guarigione della mucosa (remissione istologica) si associa a percentuali più alte di remissione clinica e ad un minor rischio di riacutizzazione e ospedalizzazione (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017).

Terapia farmacologica
Sono disponibili diverse classi di farmaci per il trattamento della colite ulcerosa. Secondo le linee guida ECCO (European Crohn’s and Colitis Organisation) i farmaci da utilizzare, in ordine crescente di gravità della malattia, comprendono (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017):

Somministrata per via topica la mesalazina rappresenta la terapia migliore in caso di infiammazione del retto (proctite). La combinazione di mesalazina per via topica ed orale è indicata in caso di colite ulcerosa sinistra; nei pazienti che non rispondono all’antinfiammatorio  sono indicati i corticosteroidi per via sistemica. Questi ultimi somministrati per via endovenosa rappresentano i farmaci di prima linea nel trattamento delle forme severe di colite ulcerosa. In alternativa ai corticosteroidi può essere utilizzata la ciclosporina endovena in monoterapia. In caso di mancata risposta ai corticosteroidi possono essere somministrati infliximab, ciclosporina o tacrolimus (farmaci di seconda linea). L’asportazione del colon (colectomia) rappresenta l’opzione terapeutica in caso di mancata risposta ai farmaci nei pazienti con grave colite ulcerosa (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017).

Mesalazina
La mesalazina o acido 5 aminosalicilico (5-ASA) è un farmaco antinfiammatorio utilizzato per la terapia di forme lievi-moderate di colite ulcerosa. E’ indicata in caso di colite ulcerosa quando la malattia si estende dal retto al tratto discendente del colon compreso e può essere utilizzata per via topica (supposta, clisma, clistere) e per via orale. E’ il farmaco di prima scelta in caso di gravidanza (Agenzia del Farmaco Italiana – AIFA, 2013). La mesalazina è indicata anche come terapia di mantenimento, dopo remissione della malattia. La terapia cronica con mesalazina sembrerebbe esplicare un’azione protettiva verso il tumore del colon retto (Rugarli, 2015). La mesalazina è indicata anche in associazione ai corticosteroidi nelle forme di colite ulcerosa moderatamente gravi. Da un punto di vista della tollerabilità, gli effetti collaterali più comuni della mesalazina comprendono diarrea, nausea, anoressia e cefalea; in alcuni casi si può manifestare eruzione cutanea (Goldman, Schafer, 2017)

Corticosteroidi
I corticosteroidi utilizzati nel trattamento della colite ulcerosa comprendono budesonide, idrocortisone, prednisone, prednisolone, metilprednisolone. I corticosteroidi possono essere somministrati per via orale o per via parenterale a seconda della gravità della malattia, in pazienti con colite ulcerosa in fase attiva (non sono efficaci come terapia di mantenimento). prednisone e prednisolone sono i farmaci di prima scelta in gravidanza (Agenzia del Farmaco – AIFA, 2013). La maggior parte dei pazienti risponde alla terapia steroidea sistemica nel primo mese di terapia; di questi, poco meno della metà avrà un decorso della malattia libero da steroidi, circa il 22% svilupperà resistenza verso questa classe di farmaci e il 29% andrà incontro ad intervento chirurgico (Faubion et al., 2001). E’ stato inoltre osservato che il ricorso agli steroidi sistemici al momento della diagnosi di colite ulcerosa è un fattore indipendente associato a colectomia (asportazione del colon) (Solberg et al., 2015). Il mancato raggiungimento di una risposta endoscopica totale o parziale (cicatrizzazione delle ulcere della mucosa) con la terapia steroidea entro tre mesi, nonostante la remissione clinica, è associato ad un aumento del rischio di riacutizzazione della malattia (Ardizzone et al., 2011).
I corticosteroidi sono farmaci con effetti collaterali importanti che rendono difficile l’aderenza alla terapia. Possono provocare insonnia, aumento del peso corporeo, ritenzione di liquidi, irsutismo (nelle donne), acne, viso a “luna piena”. In caso di somministrazione prolungata e/o dosaggio elevato possono comparire: difficoltà di cicatrizzazione, miopatia, ipertensione, osteoporosi, osteonecrosi, cataratta, problemi alla pelle (atrofia), steatosi epatica (accumulo di grassi nel fegato), infezioni e insufficienza adrenalica acuta. Uno dei problemi connessi all’uso degli steroidi nei pazienti con colite ulcerosa è lo sviluppo di dipendenza verso questi farmaci. Si parla di dipendenza quando non è possibile ridurre il dosaggio del farmaco in assenza di malattia attiva ricorrente o sospenderlo senza andare incontro ad una ricaduta.

Immunosoppressori
Gli immunosoppressori utilizzati nel trattamento della colite ulcerosa sono l’azatioprina, la 6-mercaptopurina, la ciclosporina e il tacrolimus (solo i primi due sono autorizzati in Italia per la terapia delle malattie infiammatorie croniche intestinali; per ciclosporina e tacrolimus l’uso è off label). Si tratta di farmaci che sopprimono la risposta immunitaria, i cui effetti sono visibili dopo un arco di tempo che può richiedere da diverse settimane fino a tre mesi.
L’azatioprina è il profarmaco della 6-mercaptopurina: in vivo la prima si converte nella seconda che rappresenta la molecola farmacologicamente attiva. L’azatioprina, e la 6-mercaptopurina, esplicano azione citotossica (blocco della replicazione cellulare) e immunomodulante (inibizione della risposta del sistema immunitario sia cellulo-mediata sia umorale). La ciclosporina e il tacrolimus modulano la risposta immunitaria inibendo la trascrizione genica di alcune citochine necessarie per l’attivazione e la proliferazione dei linfociti T.

Le tiopurine sono efficaci nella prevenzione delle riacutizzazioni nei malati con colite ulcerosa. La terapia con questi farmaci si associa ad una riduzione assoluta del rischio di riacutizzazione del 23% quando confrontata con placebo e il numero di pazienti da trattare per prevenire una ricaduta è risultato pari a 5 (Gisbert et al., 2009).
Azatioprina e 6-mercaptopurina sono utilizzate come terapia di mantenimento nei pazienti con riacutizzazione della malattia dopo trattamento con mesalazina, nei pazienti che hanno sviluppato dipendenza da steroidi o in fallimento terapeutico dopo trattamento con steroidi, e nei pazienti trattati con ciclosporina e tacrolimus per indurre remissione della malattia (Rugarli, 2015; Panaccione et al., 2008). Ottimizzano il trattamento nei pazienti che non rispondono più alla monoterapia con anti-TNFalfa (farmaci che inibiscono il fattore di necrosi tumorale alfa o TNFalpha, Tumor Necrosis Factor alpha). In associazione ad infliximab, anti-TNFalfa, l’azatioprina è risultata aumentare la percentuale di pazienti che raggiungono la remissione della malattia libera da steroidi (24% vs 22% vs 40% rispettivamente con azatioprina, infliximab, azatioprina più infliximab dopo 16 settimane di terapia) e la guarigione della mucosa (rispettivamente 36,8% vs 54,6% vs 62,8%) (Panaccione et al., 2014). La guarigione della mucosa (o guarigione mucosale) è un parametro chiave per l’evoluzione delle malattie infiammatorie croniche intestinali, si associa infatti a remissione clinica prolungata e a sopravvivenza senza resezione chirurgica: negli studi clinici, l’azatioprina ha determinato percentuali di guarigione della mucosa intestinale compresi tra il 37% e il 92% (Neurath, Travis, 2012).

Gli effetti collaterali dell’azatioprina e della 6-mercaptopurina, che compaiono in circa un terzo dei pazienti, comprendono: nausea, vomito, riduzione della conta dei globuli bianchi e delle piastrine, amento del rischio di infezioni, infiammazione epatica, pancreatite, parestesie e, dopo trattamento prolungato, lieve aumento del rischio di linfoma (soprattutto linfomi non Hodgkin) e di tumori della pelle diversi dal melanoma (Kotlyar et al., 2015; National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Disease – NIDDK, 2014; Beaugerie et al., 2009). Il rischio di linfoma, sia Hogdkin che non-Hodgkin, è risultato aumentare di 5 volte e sembra essere correlato con la durata della terapia (Kotlyar et al., 2015; Beaugerie et al., 2009). Tale rischio è risultato aumentare anche in caso di combinazione delle tiopurine con gli inibitori del TNFalfa, ma non con gli anti TNFalfa in monoterapia (Deepak et al., 2013). Tra i linfomi il cui rischio è aumentato dall’uso di tiopurine ci sono il linfoma epatosplenico (linfoma di tipo non Hodgkin), particolarmente aggressivo e con elevato tasso di mortalità, e il linfoma associato al virus Epstein-Barr (linfoma di tipo Hodgkin). I pazienti non immunizzati verso il virus Epstein-Barr non dovrebbero essere trattati con tiopurine.

Biologici
In Italia i farmaci biologici approvati per la terapia della colite ulcerosa comprendono infliximab, adalimumab, golimumab e vedolizumab. Molecole non ancora approvate, ma in sperimentazione sono ozanimod, tofacitinib, filgotinib ed etrolizumab.

Infliximab è il primo farmaco biologico approvato per la colite ulcerosa (2006). Si tratta di un anticorpo monoclonale diretto contro il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFalfa), uno dei principali mediatori di infiammazione. infliximab è indicato nei pazienti adulti con colite ulcerosa di grado moderato o grave che non possono assumere o non rispondono alla terapia steroidea più 6-mercaptopurina o azatioprina. Il farmaco è indicato anche in ambito pediatrico (età =/> 6 anni) per le forme gravi di colite ulcerosa quando le terapie standard non sono efficaci o non possono essere utilizzate. L’efficacia di infliximab nel trattamento della colite ulcerosa è stata valutata in due studi clinici (ACT1 e 2). Nel primo il tasso di risposta clinica e di remissione clinica è risultato rispettivamente pari al 69,4% e al 38,8% dopo 8 settimane e al 45,5% e al 34,7% dopo 54 settimane (gruppo placebo: 37,2% e 14,9% a 8 settimane; 19,8% e 16,5% a 54 settimane). Nel secondo il tasso di risposta clinica e di remissione clinica è stato rispettivamente del 64,5% e 33,9% a 8 settimane e del 47,1% e 25,6% a 30 settimane (gruppo placebo: 29,3% e 5,7% a 8 settimane; 26,0% e 10,6% a 30 settimane) (Rutgeerts et al., 2005).

Adalimumab e golimumab sono altri due farmaci biologici inibitori del TNFalfa approvati per la colite ulcerosa (hanno la stessa indicazione di infliximab nei pazienti adulti, ma non sono attualmente autorizzati in ambito pediatrico). adalimumab, approvato nel 2012 per la colite ulcerosa, è risultato efficace nell’indurre e mantenere la remissione clinica in caso di colite di grado moderato-severo, nel favorire la cicatrizzazione della mucosa intestinale e nel ridurre il ricorso all’asportazione parziale o totale del colon (colectomia) (Fiorino et al., 2011; Reinisch et al., 2011; Sandborn et al., 2012). Nei pazienti che con il tempo perdono la risposta iniziale ad adalimumab, un aumento della dose di farmaco può essere utile per recuperare risposta e remissione (Travis et al., 2017). Diversi studi clinici hanno confermato l’efficacia di golimumab nell’indurre e mantenere la remissione della colite ulcerosa, soprattutto nei pazienti mai trattati (naive) con inibitori del TNFalfa. Dopo 6 settimane, in più della metà dei pazienti (naive al trattamento con inibitori del TNFalfa) è stata osservata risposta clinica (54,9% vs 51,0% vs 30,3% rispettivamente con golimumab 400/200 mg e 200/100 mg e placebo, p<0,0001). Remissione clinica è stata osservata nel 17,9% vs 17,8% vs 6,4% dei pazienti, rispettivamente con golimumab 400/200 mg e 200/100 mg e placebo (p<0,0001) e cicatrizzazione della mucosa nel 45,1% vs 42,3% vs 28,7% dei pazienti (Sandborn et al., 2014). Il mantenimento della risposta clinica ottenuta con golimumab come terapia di induzione è stata osservata in circa la metà dei pazienti dopo un anno di terapia (vs un terzo dei pazienti trattati con placebo). Il farmaco è risultato efficace sul lungo periodo anche nel mantenere la remissione clinica (27,8% vs 15,6% rispettivamente con golimumab e placebo a 54 settimane) e la cicatrizzazione della mucosa (42,4% vs 26,6%) (Sandborn et al., 2014a). Dagli studi clinici è emerso che la risposta al golimumab correla con la concentrazione del farmaco nel sangue: i pazienti che mostrano livelli sierici di farmaco più alti hanno tassi di risposta e remissione clinica maggiori rispetto ai pazienti con i livelli sierici di farmaco più bassi (Flamant et al., 2017).

Nella pratica clinica, i biologici con maggior esperienza nel trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali sono infliximab e adalimumab. Sebbene siano risultati efficaci (ad un anno di distanza un terzo dei pazienti è ancora responsivo al farmaco), il loro uso di associa ad una quota non trascurabile di pazienti che non rispondono alla terapia o che perdono nel tempo la capacità di rispondere al farmaco. La perdita di risposta è in parte dovuta alla formazione di anticorpi anti-farmaco. Non tutti gli anticorpi anti-farmaco sono uguali; solo quelli che “attaccano” la parte farmacologicamente attiva del farmaco biologico sono in grado di neutralizzarlo. Inoltre, gli anticorpi anti-farmaco possono essere permanenti o transitori, cioè possono comparire o scomparire nel tempo (è probabile che gli anticorpi transitori non influenzino l’efficacia del farmaco biologico). Il problema della formazione degli anticorpi anti-farmaco è particolarmente rilevante nel primo anno di terapia; può essere ridimensionato associando al biologico un farmaco immunosoppressore (Ungar et al., 2014; Ben-Horin et al., 2013). Per quanto riguarda adalimumab, introdotto sul mercato successivamente ad infliximab, i dati di “real world”, ottenuti cioè dalla pratica clinica, hanno evidenziato un’efficacia terapeutica sovrapponibile a quella osservata nei trial clinici (condotti su gruppi selezionati di pazienti), in termini di risposta clinica in caso di malattia attiva (terapia di induzione) e di mantenimento della remissione clinica (Armuzzi et al., 2016).

Infliximab e adalimumab sono farmaci utilizzabili anche in gravidanza, almeno fino al termine del secondo trimestre perché non attraversano la placenta. Nel terzo trimestre, l’uso di questi farmaci deve essere deciso caso per caso. Sulla base degli studi clinici, il periodo migliore per sospendere la terapia con infliximab o adalimumab è risultato, rispettivamente, a 24,6 e a 36,8 settimane. Il rischio di recidiva è risultato maggiore con adalimumab, ma la differenza tra i due farmaci non ha raggiunto la significatività statistica. Per quanto riguarda la concentrazione del farmaco nel cordone ombelicale, quella di infliximab è risultata maggiore di quella di adalimumab. La terapia con anti-TNFalfa non è stata associata ad un maggior rischio di infezione per la madre o per il bambino, né a disturbi dello sviluppo di quest’ultimo. infliximab e adalimumab possono essere utilizzati durante l’allattamento perché la quota di farmaco escreta nel latte materno è minima e non rappresenta un rischio per il neonato (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017).

Infliximab e adalimumab hanno evidenziato efficacia e tollerabilità anche in ambito pediatrico.

Nei pazienti anziani la combinazione degli inibitori del TNFalfa con i corticosteroidi è stata associata ad un aumento dell’incidenza di infezioni (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017).

Una delle complicanze associate all’uso degli inibitori del TNFalfa è il rischio di infezioni opportunistiche, che risulta pari a 2 volte rispetto a quanto osservato con placebo. Le infezioni comprendono tubercolosi, candidosi orale o esofagea, infezioni da Herpes simplex, Herpes zoster, citomegalovirus e virus Epstein-Barr (Ford, Peyrin-Biroulet, 2013).

I farmaci biologici anti-TNFalfa inoltre sono associati ad un aumento del rischio di melanoma, ma non di tumori della pelle diversi dal melanoma (Long et al., 2012).

Il vedolizumab è un anticorpo monoclonale approvato in USA ed Europa (2014) per il trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali in pazienti adulti. E’ indicato in caso di colite ulcerosa attiva da moderata a grave in pazienti già trattati o intolleranti agli anti-TNFalfa (negli USA, il farmaco è indicato anche in caso di risposta insufficiente o intolleranza o dipendenza ai corticosteroidi) (Food and Drug Administration,  2014). Il vedolizumab è un inibitore dell’integrina alfa4beta7, molecola di adesione che a livello della mucosa intestinale interviene nel processo di migrazione dei leucociti verso i siti di infiammazione. L’inibizione dell’integrina determina un effetto antinfiammatorio localizzato. Nei pazienti con colite ulcerosa moderata-grave vedolizumab è risultato efficace come terapia di induzione e di mantenimento nell’indurre risposta terapeutica, remissione clinica e cicatrizzazione delle ulcere (Feagan et al., 2013; Danese et al., 2014; Kawalec et al., 2014). Analoghi esiti sono stati osservati anche a lungo termine (efficacia terapeutica: 98% dei casi a 5 anni; remissione della malattia: 90% dei casi a 5 anni), incluso il miglioramento della qualità di vita nei pazienti trattati con vedolizumab come terapia di mantenimento (European Crohn’s and Colitis organisation, 2017; LeBlancc et al., 2015). La risposta terapeutica al vedolizumab è risultata dipendere dal numero di trattamenti precedenti: la probabilità di andare incontro a risposta clinica e a remissione clinica è risultata più alta nei pazienti naive (mai trattati) rispetto a quelli già trattati con inibitori del TNFalfa (in quest’ultimo gruppo, tassi di risposta più bassi sono stati osservati in chi era stato trattato con due farmaci anziché uno). La stessa analisi ha evidenziato come la risposta alla terapia di induzione con vedolizumab sia stata associata all’ottenimento della guarigione della mucosa intestinale (Dulai et al., 2017).

La ricerca farmacologica per trovare altri principi attivi efficaci nel trattamento della colite ulcerosa ha individuato altri potenziali farmaci. Ozanimod è un modulatore selettivo del recettore della sfingosina-1-fosfato, sottotipo 1 (S1PR1) e 5 (S1PR5) in studio per malattie di tipo immuno-infiammatorie come le infiammazioni croniche intestinali e la sclerosi multipla. Il farmaco esplica attività antinfiammatoria riducendo il numero di linfociti attivati a livello gastrointestinale. Nei pazienti con colite ulcerosa moderata-severa trattati con ozanimod, il farmaco ha indotto e mantenuto la risposta clinica, la remissione clinica, la guarigione endoscopica della mucosa e la remissione istologica (la remissione clinica è stata osservata in circa l’80% dei pazienti trattati per 32-36 settimane). Negli studi clinici gli effetti più frequentemente osservati sono stati riacutizzazione della colite ulcerosa, mal di schiena, infezioni delle alte vie respiratorie, anemia, rinofaringite; in circa il 3% dei pazienti è stato riscontrato un aumento transitorio delle transaminasi epatiche (Sandborn et al., 2016 e 2017).

Altro farmaco in corso di sperimentazione nel trattamento della colite ulcerosa è il tofacitinib. Si tratta di un farmaco approvato negli USA e in Europa per la terapia dell’artrite reumatoide che inibisce la via di segnalazione intracellulare della Janus chinasi (JAK inhibitor). Il blocco della Janus chinasi riduce infiammazione e danno tissutale. Nei pazienti con colite ulcerosa moderata-grave, la somministrazione di tofacitinib è risultata efficace nell’indurre e mantenere la remissione clinica della malattia in pazienti già trattati senza successo con la terapia standard (corticosteroidi  più azatioprina o 6-mercaptopurina) o anti-TNFalfa (remissione clinica dopo un anno di terapia: 34,3% con la dose di 5 mg/die; 40,6% con la dose di 10 mg/die; 11,1% gruppo placebo). Inoltre i pazienti trattati con tofacitinib, che erano in remissione quando sono stati arruolati per il trial di un anno, hanno evidenziato percentuali più elevate in termini di remissione sostenuta libera da steroidi rispetto al gruppo placebo (35,4% vs 47,3% vs 5,1%). Da un punto di vista della tollerabilità, i pazienti trattati con il farmaco attivo hanno manifestato una maggior incidenza di infezioni (le infezioni gravi comunque sono risultate sovrapponibili al gruppo placebo nello studio durato un anno) (Sandborn et al., 2017a). Altro farmaco in corso di sperimentazione, anch’esso inibitore della Janus chinasi, è il filgotinib (uno studio di fase 3 codificato come NCT02914522 dovrebbe concludersi a dicembre 2019).

Etrolizumab è un anticorpo monoclonale che blocca la subunità beta7 delle integrine alfa4beta7 e alfaEbeta7 inibendo la migrazione dei leucociti dal sangue verso le zone di mucosa intestinale infiammata. In uno studio di fase II, randomizzato, controllato con placebo, il farmaco è risultato efficace nell’indurre remissione della malattia dopo 10 settimane di terapia (21% vs 0% rispettivamente con 100 mg di farmaco e placebo) (Vermeire et al., 2014). In un altro gruppo di pazienti con colite ulcerosa grave (già trattati con almeno due farmaci inibitori del TNFalfa), la somministrazione in aperto di etrolizumab (105 mg ogni 4 settimane) ha determinato remissione del sanguinamento rettale nel 30% dei pazienti dopo 4 settimane, percentuale salita al 50% dopo 14 settimane, e remissione in termini di riduzione della frequenza di evacuazione nel 10% e nel 25% dei pazienti rispettivamente dopo 4 e 14 settimane. La remissione clinica è andata di pari passo con la riduzione dei due biomarcatori di infiammazione, la calprotectina fecale e la proteina C-reattiva. Gli effetti collaterali più comuni sono stati rinofaringite (10%), mal di testa (8%) e affaticamento (6%) (Peyrin-Biroulet et al., 2017). La risposta all’etrolizumab sembrerebbe correlata all’espressione, a livello della mucosa intestinale del colon, dell’mRNA per il gene grazyme A e per quello dell’integrina alfaE. i pazienti con i livelli più alti di mRNA andrebbero incontro a più alti tassi di remissione della malattia (Tew et al., 2016).

Attualmente i farmaci biologici approvati per il trattamento della colite ulcerosa comprendono:

Terapia chirurgica
Per la colite ulcerosa, l’intervento chirurgico di asportazione del colon (colectomia) può essere considerato un intervento terapeutico. Circa il 40% dei pazienti con malattia estesa va incontro a colectomia, di fatto, per una risposta non ottimale alla terapia farmacologica. L’intervento chirurgico rappresenta inoltre una scelta obbligata in caso di displasia della mucosa (lesioni precancerose) o tumore e come trattamento d’urgenza (megacolon tossico o attacco acuto in assenza di megacolon tossico).

In caso di attacco acuto in pazienti con colite severa l’intervento chirurgico è indicato in assenza di risposta al trattamento farmacologico steroideo (farmaci di prima linea) e con inibitori del TNFalfa o ciclosporina (farmaci di seconda linea).

Il rischio di complicanze post chirurgiche si attesta sul 27%: l’età (> 65 anni), l’indice di massa corporea, l’urgenza dell’intervento e la presenza di tre o più patologie associate sono fattori di rischio per complicanze (Bartels et al., 2013; De Silva et al., 2011).

L’intervento chirurgico standard per la colite ulcerosa è la proctocolectomia totale che prevede la rimozione totale del colon, del retto e dell’ano. Questo intervento è curativo perché elimina la malattia e il rischio di sviluppare il tumore del colon retto, ma implica l’applicazione di una sacca esterna alla parete addominale per la raccolta delle feci da mantenere per tutta la vita. Una variante di questo intervento consente di inserire internamente la sacca per la raccolta delle feci. Con il tempo però la sacca interna potrebbe richiedere una sostituzione, quindi la necessità di sottoporre il paziente ad un ulteriore intervento.

Per ovviare al problema della sacca, quando possibile si cerca di preservare l’ano (proctocolectomia restaurativa). In questo caso la parte di intestino residua è unita direttamente all’ano attraverso una giunzione che forma come un serbatoio o piccola sacca (pouch) che svolge la funzione del retto di contenimento delle feci e serve ad evitare il problema della diarrea. Una complicanza di questo tipo di intervento è il cedimento della giunzione fra intestino e ano. Per ridurre il rischio di cedimento, per i primi 2-4 mesi successivi all’intervento le feci vengono eliminate attraverso un’apertura che connette direttamente l’intestino con l’esterno (ileostomia). Un’altra complicanza è rappresentata dall’infiammazione della giunzione tra intestino e ano: nella maggior parte dei pazienti tale infiammazione risponde al trattamento antibiotico, ma in un piccolo numero di casi è necessario rimuovere il serbatoio e procedere con una ileostomia permanente. Nei pazienti trattati con inibitori del TNFalfa che devono essere sottoposti ad intervento chirurgico con realizzazione di un pouch, la suddivisione dell’intervento in due fasi, colectomia subtotale e ileostomia, è risultata associata ad una minor incidenza di complicanze post chirurgiche (sepsi pelvica) (Gu et al., 2013).

In alcuni pazienti è possibile intervenire asportando il colon, ma mantenendo in sede il retto e l’ano (colectomia totale). In questo caso l’intestino è unito direttamente al retto e si riesce a preservare la funzionalità del retto e dello sfintere anale. Questo intervento però non è risolutivo per la malattia perché la colite ulcerosa può persistere a carico del retto, con rischio di infiammazione (proctite), aumento della necessità di defecare, e, nel tempo, aumento del rischio di tumore al retto.