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Epatite B

Farmaci e terapie

Quali farmaci per l'Epatite B?

I pazienti con epatite B acuta non vengono trattati farmacologicamente in quanto la maggior parte degli adulti che contraggono l’infezione eliminano spontaneamente il virus. Fanno eccezione le persone con deficit del sistema immunitario (pazienti immunodepressi) e le persone in cui l’epatite si presenta con un decorso aggressivo (epatite fulminante).

Nei pazienti con epatite B cronica, la cura con i farmaci è finalizzata alla soppressione della replicazione virale e alla remissione della malattia epatica per ridurre il rischio di complicanze sul lungo periodo, in particolare cirrosi, insufficienza epatica e tumore epatico (epatocarcinoma del fegato). I farmaci antivirali approvati per il trattamento dell’epatite cronica B infatti non riescono ad eradicare il virus HBV e hanno un’efficacia limitata nel tempo. Persistono infatti forme circolari del DNA virale (cccDNA) all’interno della cellula epatica, da cui può riattivarsi l’infezione.

L’obiettivo teorico della terapia farmacologica nel trattamento dell’epatite B cronica è la perdita dell’antigene di superficie HBsAg che è piuttosto difficile da ottenere con i farmaci antivirali attualmente disponibili (Linee Guida EASL, 2012). La perdita dell’antigene di superficie e l’eventuale comparsa degli anticorpi specifici (sieroconversione) è associata alla remissione completa della malattia epatica e ad esiti clinici favorevoli sul lungo periodo.

Di fatto sono considerate risposte terapeutiche soddisfacenti la normalizzazione dei livelli di ALT (risposta biochimica), la soppressione della viremia (risposta virologica) e la riduzione dell’infiammazione e della necrosi, in assenza di peggioramento della fibrosi epatica (risposta istologica).

Con quali farmaci e quando iniziare la cura dipende da diversi fattori come l’età del paziente, la gravità dell’infezione, le probabilità di una risposta positiva al trattamento, la tollerabilità della terapia.

In genere si decide di intervenire se il rischio di complicanze e/o di mortalità è elevato (entro 5-10 anni) o prevedibile (10-20 anni) e la probabilità di indurre soppressione della replicazione virale è alta. Poichè l’andamento dell’infezione dell’epatite B cronica è altalenante, il paziente deve essere monitorato periodicamente e il quadro clinico deve essere rivalutato ciclicamente.

I farmaci approvati in Europa per il trattamento dell’epatite B cronica comprendono l’interferone alfa (INF alfa, peginterferone alfa-2a), molecola proteica naturale con attività immunomodulante, antivirale e antiproliferativa e gli analoghi nucleosidici-nucleotidici adefovir-dipivoxil, entecavir, lamivudina, telbivudina, tenofovir.

Nei pazienti con epatite B cronica HBeAg-positivi trattati per un anno con peginterferone o analoghi nucleosidici/nucleotidici il tasso di sieroconversione dell’antigene HBeAg, negli studi clinici, si attesta circa sul 30% per il peg-interferone e sul 20% per i farmaci antivirali. Nei pazienti trattati con gli antivirali, il prolungamento della terapia aumenta il tasso di sieroconversione, ma anche il rischio di resistenza farmacologica. La persistenza della sieroconversione dopo terapia con i farmaci antivirali risulta minore rispetto a quella con peg-interferone (Reijnders al., 2010; Buster et al., 2008). Nei pazienti in terapia per almeno tre anni con i farmaci antivirali più potenti, entecavir e tenofovir, la soppressione della carica virale (HBV DNA) è risultata superiore al 90%. Per quanto riguarda la perdita dell’antigene di superficie HBsAg, “gold standard“ della terapia farmacologica, negli studi clinici l’obiettivo è stato raggiunto, dopo 12 mesi di terapia, dal 3-7% dei pazienti trattati con peg-interferone, dal 3% dei pazienti con tenofovir, dal 2% dei pazienti con entecavir, dall’1% dei pazienti trattati con lamivudina, dallo 0,5% dei pazienti con telbivudina e da nessun paziente in cura con adefovir (Lau et al., 2005; Chang et al., 2006; Lai et al., 2007, Marcellin et al., 2008, Marcellin et al., 2008a). La percentuale di pazienti è risultata più elevata nei pazienti con risposta virologica sostenuta dopo terapia con peg-interferone e nei pazienti trattati per più di un anno con i farmaci antivirali.

Nei pazienti con epatite B cronica HBeAg-negativi, l’efficacia della terapia è verificata dalla soppressione della carica virale (HBV DNA). Nei trial clinici, la percentuale di pazienti che dopo un anno di terapia con peg-interferone o farmaci antivirali ha evidenziato risposta virologica dopo 6 mesi dalla sospensione dei farmaci è risultata pari, rispettivamente, al 20% e a meno del 5%. Nei pazienti trattati con entecavir e tenofovir per almeno 3-5 anni la remissione virologica ha raggiunto il 95%. Rispetto ai pazienti con epatite B cronica HBeAg-positivi, nei pazienti che non presentano l’antigene HBeAg la possibilità di andare incontro a perdita dell’antigene di superficie HBsAg è ancora inferiore (3% con peg-interferone alfa-2a e nessun paziente con i farmaci antivirali) e, mentre la possibilità di prolungare la terapia con peg-interferone aumenta la probabilità di perdere l’antigene di superficie (9% e 12% dei pazienti dopo 3 anni e 5 anni di cura), questa evenienza dopo 4-5 anni di terapia con gli analoghi nucleosidici/nucleotidici è sporadica (Papatheodoridis et al., 2005; Hadziyannis et al., 2006; Marcellin et al., 2009 e 2009a; Marcellin et al., 2011).

Nei pazienti con epatite B che evidenziano co-infezioni con HIV, HCV o HDV la terapia di scelta è una terapia combinata in grado di intervenire sulle diverse infezioni presenti. La co-infezione infatti accelera la progressione della malattia epatica e aumenta il rischio di cirrosi e carcinoma epatico.

Nei pazienti con epatite B cronica e infezione da HIV (HBV/HIV) si raccomanda la somministrazione di tenofovir associato a emtricitabina o lamivudina più un terzo farmaco diretto verso l’HIV. Il tenofovir è efficace verso i ceppi di HBV resistenti alla lamivudina e, in associazione a quest’ultima, riduce il rischio di resistenza (nei pazienti con HBV/HIV la resistenza alla lamivudina arriva al 90% dopo 4 anni di terapia). Nei pazienti co-infettati che non richiedono un trattamento attivo verso l’HIV, possono essere somministrati peg-interferone, adefovir e telbivudina (Rockstroh et al., 2008); lamivudina, entecavir e tenofovir non sono indicati in monoterapia contro il virus HBV per l’elevato rischio di resistenza verso il virus HIV (quando si sceglie di somministrare questi farmaci per il trattamento dell’epatite B cronica è quindi necessario escludere la co-infezione con il virus HIV) (Linee Guida EASL, 2012).

Nei pazienti con epatite cronica B co-infettati con il virus dell’epatite C (HCV) i due virus si replicano nelle stesse cellule del fegato senza interferire l’uno con l’altro. In questi pazienti i livelli di HBV DNA possono oscillare, ma spesso sono bassi e non diagnosticabili. Dei due virus, quello che sostiene l’epatite cronica è il virus HCV e pertanto la terapia farmacologica è mirata verso questo tipo di virus (Potthoff et al., 2008). Qualsiasi riattivazione dell’epatite B deve essere trattata farmacologicamente con gli analoghi nucleosidici/nucleotidici specifici (monitoraggio periodico dei livelli di HBV DNA) (Linee Guida EASL, 2012).

I pazienti con epatite B cronica co-infettati con il virus dell’epatite D (HDV) presentano un rischio maggiore di epatite fulminante rispetto ai pazienti con la sola infezione da HBV. Nel 70-90% dei pazienti con superinfezione da HDV si sviluppa un’epatite cronica, mentre è piuttosto poco frequente che pazienti con epatite acuta da HBV/HDV evolvano a forme di epatite cronica. Il trattamento farmacologico verso l’epatite B è indicato nei pazienti con replicazione virale attiva HBV. La diagnosi dell’epatite D è difficile per la mancanza di test standardizzati per la determinazione della carica virale, degli antigeni e degli anticorpi specifici. L’unico farmaco efficace contro il virus dell’HDV è il peg-interferone.

Nei bambini l’epatite B cronica decorre in modo asintomatico e non richiede l’intervento farmacologico. I dati di letteratura disponibili riguardano essenzialmente l’uso di interferone alfa, lamivudina e adefovir dipivoxil che hanno evidenziato un profilo di attività antivirale simile a quello riscontrato nella popolazione adulta (Jonas et al., 2008, 2008a e 2010).

In gravidanza il trattamento dell’epatite B presenta alcuni problemi legati alla minore disponibilità di farmaci utilizzabili. L’interferone, anche come peg-interferone, la lamivudina, l’adefovir e l’entecavir sono inseriti in classe C per l’uso in gravidanza (tossicità riproduttiva in vivo e/o mancanza di studi nella donna; necessaria valutazione del rapporto rischio/beneficio), mentre la telbivudina e il tenofovir in classe B (tossicità riproduttiva in vivo, ma non evidenziata nella donna) (classificazione per l’uso dei farmaci in gravidanza proposta dalla Food and Drug Administration).

Sulla base dei dati di letteratura relativi alla sicurezza d’uso e del profilo più o meno favorevole relativo al rischio di resistenza, il tenofovir risulta il farmaco più idoneo per l’uso in gravidanza nelle donne con positività al test per il virus dell’epatite B (Bzowej, 2010; Linee Guida EASL, 2012). Nelle donne in età fertile HBV-positive senza segni di progressione di fibrosi epatica, è possibile ritardare l’inizio della terapia farmacologica fino al termine della gravidanza; nelle donne invece con segni di progressione della fibrosi è opportuno iniziare una cura con interferone e ritardare la gravidanza. In caso di controindicazione o fallimento della terapia interferonica, somministrare tenofovir prima e durante la gravidanza. Nelle donne con epatite B cronica in terapia farmacologica che vanno incontro ad una gravidanza non attesa si rende necessaria una rivalutazione dei farmaci in uso: la terapia con interferone o farmaci antivirali in classe C per l’uso in gravidanza deve essere sospesa e sostituita con farmaci antivirali più “sicuri“, come il tenofovir e la telbivudina, con preferenza per il primo (Linee Guida EASL, 2012).

La prevenzione della trasmissione dell’infezione da HBV durante il parto, da madre a figlio, si attua con la somministrazione di immunoglobulina (immunizzazione passiva) e la vaccinazione anti epatite B (immunizzazione attiva). Nei bambini in cui questo approccio potrebbe non essere sufficiente per prevenire il contagio (viremia materna > 106-7 UI/ml), la somministrazione durante il terzo trimestre di gravidanza di lamivudina, telbivudina e tenofovir (per quest’ultimo non sono disponibili studi clinici) risulta efficace nel sopprimere la carica virale materna e nel ridurre il rischio di trasmissione intrauterina e perinatale dell’epatite B in associazione all’immunizzazione passiva e attiva (Xu et al., 2009; Han et al., 2011).

La compatibilità dei farmaci antivirali per l’epatite B con l’allattamento al seno non è stata ben definita. Sebbene sia stata individuata la presenza dell’antigene di superficie HBsAg nel latte materno, l’allattamento al seno non è considerato controindicato per le donne HBsAg-positive. Il tenofovir è escreto nel latte materno, ma la sua concentrazione non dovrebbe risultare significativa per la salute del bambino (Benaboud et al., 2011).

Interferone
L’interferone (INF) è indicato nel trattamento dell’epatite cronica in pazienti con replicazione virale attiva (positività per HBeAg o HBV DNA). É disponibile nella forma naturale, ricombinante (INF alfa-2a, INF alfa-2b) e peghilata (peginterferone, pegINF). La forma naturale è utilizzata nei pazienti che non rispondono o sono intolleranti all’interferone ricombinante. La forma ricombinante si differenzia da quella naturale per l’aminoacido in posizione 23 e 34. La forma peghilata (o pegilata) è ottenuta per coniugazione con il polietilene glicole che rallenta l’eliminazione dell’interferone dall’organismo e consente pertanto un minor numero di somministrazioni del farmaco. Mentre infatti l’interferone alfa deve essere somministrato giornalmente o a giorni alterni (tre volte settimana), il peginterferone è somministrato una sola volta alla settimana. Nei trial clinici il peginterferone ha evidenziato un’efficacia sovrapponibile o leggermente maggiore rispetto all’interferone non peghilato.

La dose raccomandata di interferone alfa-2a (INF alfa-2a) è pari a 2,5-6 milioni UI/m2 di superficie corporea, per via sottocutanea, 3 volte/settimana per 4-6 mesi. La dose raccomandata di interferone alfa-2b (INF alfa-2b) è di 5-10 milioni UI tre volte a settimana per via sottocutanea o intramuscolare per 4-6 mesi. La terapia va interrotta se dopo 3-4 mesi non si osservano miglioramenti oppure in caso di tossicità ematica.

Il peginterferone alfa-2a è il solo peginterferone approvato per il trattamento dell’epatite cronica B. La dose raccomandata è di 180 mcg una volta alla settimana per via sottocutanea. La durata della terapia è di 48 settimane. Il peginterferone è indicato in pazienti con malattia epatica compensata, con evidente replicazione virale, elevati livelli di ALT, infiammazione e/o fibrosi epatica confermata per via istologica. Nei pazienti con positività per HBeAg, il peginterferone è risultato efficace anche quando somministrato a dosi leggermente più basse rispetto a quelle raccomandate e/o per una durata della cura lievemente inferiore.

I pazienti che tendono a rispondere positivamente alla terapia con interferone (sieroconversione: scomparsa dell’antigene HBeAg e comparsa degli anticorpi corrispondenti HBeAb) sono quelli con positività per HBeAg e transaminasi ALT elevate e il tipo di risposta è sovrapponibile considerando pazienti adulti o pazienti pediatrici; nei pazienti con ALT normali la risposta all’interferone non supera il 10% (Brook et al., 1989; Lok et al., 1992; Jara, Bortolotti, 1999; Sokal et al., 1998; Torre, Tambini, 1996). Nei pazienti responsivi all’interferone alfa, la sieroconversione HBeAg si mantiene per 4-8 anni nell’80-90% dei pazienti (Niederau et al., 1996; Fattovich et al., 1997; Krogsgaard, 1998).

I pazienti con epatite B cronica che non presentano l’antigene HBeAg hanno un tasso di risposta dopo terapia con interferone-alfa che oscilla fra il 38% e il 90%, ma circa la metà va incontro a recidiva una volta terminata la cura e il rischio di recidiva si protrae fino a 5 anni dopo (Lampertico et al., 1997; Papatheodoridis et al., 2001). L’aumento della durata del trattamento con interferone, da 6-12 mesi a 24 mesi, aumenta la possibilità di indurre risposte positive che si mantengono nel tempo (Lampertico et al., 2003). Analogo comportamento è stato osservato nei pazienti non responsivi al primo ciclo di cura e sottoposti ad un secondo ciclo di interferone-alfa (20-30% dei pazienti) (Manesis, Hadziyannis, 2001).

Adefovir dipivoxil
L’adefovir dipivoxil è il pro-farmaco dell’antivirale adefovir, analogo nucleotidico dell’adenosina monofosfato. L’adefovir blocca la replicazione del virus HBV per inibizione degli enzimi transcriptasi inversa e DNA polimerasi. L’adefovir dipivoxil è risultato efficace sia verso i ceppi “selvatici“ (wild type) sia verso i ceppi resistenti alla lamivudina.

La dose raccomandata è di 10 mg/die per via orale nei pazienti adulti (il farmaco non è approvato nei bambini). In caso di insufficienza renale è necessario aumentare l’intervallo tra una dose e l’altra. Nei pazienti HBeAg-positivi, la terapia con dipivoxil adefovir può essere interrotta dopo 6 mesi dalla sieroconversione. Nei pazienti HBeAg-negativi, la cura deve essere proseguita oltre l’anno per mantenere la risposta terapeutica indotta dal farmaco. Nei pazienti con epatite B resistente a lamivudina, in particolare pazienti in condizioni di cirrosi scompensata o con epatite B dopo trapianto di fegato, è necessario un trattamento prolungato con adefovir dipivoxil.

Entecavir
L’entecavir è un analogo nucleosidico della guanosina; appartiene alla stessa classe della lamivudina e dell’adefovir dipivoxil (inibitori nucleosidici e nucleotidici della transcriptasi inversa). Blocca la replicazione del virus dell’epatite B per inibizione della polimerasi virale (inibizione della trascrizione del filamento di DNA del virus HBV).

La dose terapeutica raccomandata di entecavir è di 0,5 mg/die per via orale, da raddoppiare (1 mg/die) in caso di ceppi virali resistenti a lamivudina e da ridurre in caso di pazienti con insufficienza renale. L’efficacia antivirale dell’entecavir nel sopprimere la replicazione virale è indipendente dalla razza (efficacia simile per popolazione caucasica e asiatica), dal genotipo del virus HBV e dai livelli di transaminasi, anche se i tassi di sieroconversione sono risultati più alti nei pazienti con livelli di ALT elevati (oltre 5 volte il limite massimo superiore).

Nei pazienti HBeAg-positivi l’entecavir (0,5 mg/die) è associato a tassi di sieroconversione simili a quelli evidenziati con lamivudina (100 mg/die) (rispettivamente 21% vs 18% dopo il primo anno di cura e 13% vs 11% dopo il secondo anno di cura), ma determina soppressione della replicazione virale (HBV DNA non diagnosticabile) in una percentuale maggiore di pazienti (67% vs 36% dopo un anno di terapia rispettivamente con entecavir e lamivudina; 81% vs 39% dopo 2 anni di terapia) (Chang et al., 2006; Gish et al., 2005). L’entecavir ha dimostrato inoltre una maggiore efficacia rispetto alla lamivudina nel ridurre i livelli della transaminasi ALT (79% vs 68%) e nell’indurre miglioramento istologico (Sherman et al., 2006). In studi di piccole dimensioni, l’entecavir è risultato efficace nell’indurre regressione della fibrosi e della cirrosi epatica dopo 3-6 anni di terapia. Analoghi risultati sono stati osservati nei pazienti HBeAg-negativi (Lai et al., 2006).

La resistenza all’entecavir è un evento poco frequente: nei trial clinici è stata osservata in circa il 3% dei pazienti trattati per almeno 2 anni con il farmaco e in meno dell’1% dei pazienti con resistenza alla lamivudina (Colonno et al., 2006; Tenney et al., 2004).

Lamivudina
La lamivudina è stato il primo farmaco antivirale ad essere approvato per il trattamento dell’epatite B cronica. É un analogo nucleosidico pirimidinico. Agisce inibendo la sintesi del DNA del virus HBV. La dose raccomandata è di 200 mg/die per i pazienti adulti e di 3 mg/kg/die per i pazienti pediatrici (dose massima: 100 mg/die). La lamivudina è somministrata per bocca; richiede un aggiustamento del dosaggio in caso di insufficienza renale.

Le percentuali di sieroconversione nei pazienti HBeAg-positivi dopo un anno di trattamento con lamivudina sono simili a quelle ottenute con un ciclo di 16 settimane con interferone alfa e più basse di quelle ottenute con un ciclo di 12 mesi con peginterferone. La percentuale di sieroconversione HBeAg aumenta prolungando la durata del trattamento con lamivudina sia nei pazienti con livelli elevati di ALT sia in pazienti con livelli normali anche se nel primo caso il tasso di sieroconversione è più elevato (i livelli pretrattamento di ALT sono i più importanti predittori di risposta alla lamivudina) (Chien et al., 1999). Dopo un anno di cura con lamivudina la sieroconversione è stata osservata nel 16-18% dei pazienti con livelli di ALT elevati e in meno del 10% dei pazienti con livelli di ALT normali; dopo 5 anni nel primo gruppo le percentuali di sieroconversione arrivavano al 50-60%, nel secondo gruppo dopo 3 anni al 19% (Liaw et al., 2000; Leung et al., 2001; Chang et al., 2004). Anche nei bambini l’aumento della durata della terapia con lamivudina comporta un incremento del tasso di sieroconversione, ma il rischio di selezionare ceppi resistenti del virus è piuttosto alto (ceppi mutanti resistenti evidenziati nel 19% vs 49% vs 64% dei pazienti rispettivamente dopo 1, 2 e 3 anni di cura continuativa con lamivudina) (Sokal et al., 2006).

Circa il 70-90% dei pazienti mantengono la sieroconversione dell’antigene HBeAg dopo aver smesso di assumere la lamivudina, ma il rischio di una recidiva sussiste, anche a distanza di un anno dalla fine del trattamento, pertanto periodicamente è necessario effettuare dei controlli (ogni 1-3 mesi nei primi 6 mesi dalla fine della cura, quindi ogni 3-6 mesi) (Honkoop et al., 2000). I trattamenti prolungati con lamivudina sono associati ad un aumento del rischio di resistenza virale. Durante i primi tre anni di terapia con lamivudina l’incidenza di resistenza al farmaco è circa 10 volte quella osservata con adefovir dipivoxil (Shaw, Locarnini, 2004). Nei pazienti in terapia con lamivudina da più di 2 anni, in assenza di sieroconversione, è opportuno valutare la possibilità di cambiare la cura per evitare la selezione di ceppi virali resistenti al farmaco.

La lamivudina è risultata efficace anche nei pazienti HBeAg-negativi (soppressione della replicazione virale nel 60-70% dei pazienti), ma quasi la totalità dei pazienti trattati (90%) recidiva una volta terminata la cura (Santantonio et al., 2000). Nei pazienti con cirrosi scompensata, la lamivudina stabilizza o migliora la funzionalità epatica, ritardando il ricorso al trapianto. I benefici clinici però sono di breve durata (3-6 mesi) e anche nei pazienti che hanno evidenziato un miglioramento clinico, il rischio di carcinoma epatico permane.

Telbivudina
La telbivudina è un analogo nucleosidico con elevata attività antivirale verso il virus dell’epatite B. Negli studi clinici la telbivudina ha evidenziato una potenza nell’inibire la replicazione virale (soppressione dell’HBV DNA) decisamente superiore a quella di lamivudina. La telbivudina è però gravata dal un rischio elevato di resistenza e i ceppi resistenti a questo farmaco spesso evidenziano resistenza crociata con la lamivudina.

La dose raccomandata di telbivudina nel trattamento dell’epatite B cronica è di 600 mg/die. La dose deve essere aggiustata nei pazienti con insufficienza renale.

Nei pazienti HBeAg-positivi, il tasso di sieroconversione ottenuto con telbivudina e lamivudina è risultato sovrapponibile negli studi clinici: 26% vs 23% dopo 1 anno e 34% vs 29% dopo 2 anni di terapia. La soppressione dell’HBV DNA e la normalizzazione dei livelli di ALT sono invece risultati più elevati con telbivudina dopo 1 e 2 anni di cura (HVB DNA non diagnosticabile: 60% vs 40% e 54% vs 38% dopo 1 e 2 anni rispettivamente con telbivudina e lamivudina; normalizzazione di ALT: 77% vs 75% e 67% vs 61% rispettivamente dopo 1 e 2 anni). Analoghi risultati sono stati ottenuti nei pazienti HBeAg-negativi in termini di soppressione della replicazione virale e normalizzazione delle transaminasi (Lai et al., 2005 e 2006a).

Tenofovir disoproxil fumarato
Il Tenofovir, antivirale approvato nel 2008, è strutturalmente simile all’adefovir (analogo nucleotidico). É indicato nel trattamento dell’epatite B cronica nei pazienti con elevati livelli di ALT, evidenza di replicazione virale e malattia epatica compensata. Il farmaco è indicato anche nel trattamento dell’infezione HIV in terapia combinata. In vitro, il tenofovir è risultato avere potenza sovrapponibile ad adefovir; in vivo è risultato possedere minor tossicità renale. Il tenofovir è somministrato come tenofovir disoproxil fumarato; la dose raccomandata è di 245 mg/die in somministrazione singola a stomaco pieno. Il farmaco non è stato approvato per i bambini.

La durata del trattamento con tenofovir è variabile. Il farmaco deve essere somministrato fino a sieroconversione HBeAg oppure HBsAg oppure fino a perdita di efficacia terapeutica. La terapia richiede il monitoraggio della carica virale (HBV DNA) e dei livelli delle transaminasi per evidenziare eventuali recidive. Esacerbazioni dell’epatite B si possono presentare durante la terapia con tenofovir (dopo 4-8 settimane) e al termine della stessa. Il tenofovir è risultato efficace nel ridurre la carica virale in pazienti con epatite B resistente alla lamivudina e in pazienti co-infettati con HIV (Kuo et al., 2004; Ristig et al., 2002; Benhamou et al., 2006).

I farmaci disponibili in Italia per la cura dell’epatite B cronica comprendono:
Interferone
• Interferone alfa naturale (Alfaferone)
• Interferone alfa-2a (Roferon A)
• Interferone alfa-2b (Introna)
• Peginterferone alfa-2a (Pegasys)
Farmaci antivirali
• Adefovir dipivoxil (Hepsera)
• Entecavir (Baraclude)
• Lamivudina (Epivir, Lamivudina)
• Telbivudina (Sebivo)
• Tenofovir disoproxil fumarato (Viread)