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Infezione da Cytomegalovirus (CMV)

Diagnosi

Come si diagnostica l'Infezione da Cytomegalovirus (CMV)?

Gli esami disponibili per diagnosticare l’infezione da Cytomegalovirus comprendono:

La diagnosi dell’infezione da Cytomegalovirus (CMV) viene effettuata in specifici casi poiché nella maggior parte delle persone con sistema immunitario efficiente, l’infezione decorre in assenza di sintomi o con sintomi molto lievi e aspecifici.

La diagnosi è necessaria per distinguere l’infezione da CMV da altre malattie (mononucleosi infettiva, epatite virale), nelle forme gravi di malattia, nei neonati sintomatici, quando è opportuno istituire una terapia farmacologica adeguata.

La diagnosi si avvale: a) dell’isolamento del virus in coltura utilizzando campioni biologici quali sangue, lavaggio broncoalveolare (BAL, Broncho Alveolar Lavage), saliva, urine, campioni di tessuto (biopsia); b) della ricerca degli antigeni virali; c) della ricerca degli anticorpi anti-Cytomegalovirus; d) della ricerca del genoma virale con la tecnica della PCR (Polymerase Chain Reaction) o dell’ibridazione molecolare; e) dell’identificazioni delle alterazioni causate dal virus a carico delle cellule dei tessuti.

Una volta avvenuto il contatto con il Cytomegalovirus, il sistema immunitario produce anticorpi specifici IgM e IgG. Il titolo delle IgM raggiunge il valore massimo 1-3 mesi dopo il contagio (fase acuta), quindi scende progressivamente fino a non essere più rilevabile (fase di convalescenza). In alcuni pazienti le IgM possono permanere nel sangue per un tempo maggiore, pari a 6-9 mesi. Dopo la comparsa delle IgM, compaiono nel sangue le IgG. Questo tipo di anticorpo richiede un processo di maturazione (18-20 settimane) per legare in maniera efficiente gli antigeni virali. Questa capacità viene definità “avidità” delle IgG per gli antigeni virali. A seconda dell’avidità delle IgG è possibile “datare” l’infezione. La possibilità di individuare con buona approssimazione quando un paziente ha contratto l’infezione è particolarmente significativa per le donne in gravidanza per i rischi potenzialmente gravi per il feto. La determinazione dell’avidità delle IgG per la diagnosi di infezione acuta da Cytomegalovirus ha una sensibilità del 92-100% e una specificità dell’82-100% (Osservatorio Malattie Rare – OMAR, 2013).

La ricerca degli anticorpi anti-CMV può essere eseguita negli adulti e nei bambini a partire dall’anno di età (quando gli anticorpi materni non sono più rintracciabili). La tecnica maggiormente utilizzata per l’esecuzione dei test sierologici è immunoenzimatica (Enzyme-Linhed Immunosorbent Assay, ELISA). La diagnosi dell’infezione da Cytomegalovirus si basa essenzialmente sul titolo degli anticorpi IgG. A seconda degli esiti della ricerca di IgM e IgG si possono delineare diverse situazioni (Centers for Desease Control and Prevention – CDC, 2018c):
a) IgM e IgG negative: assenza d’immunità, la persona è suscettibile di infezione.
b) IgG positive: la persona ha contratto l’infezione nel passato (infezione pregressa), ma non è possibile dire quando. Le donne in gravidanza con infezione pregressa non richiedono accertamenti ulteriori. La condizione più pericolosa per il feto infatti si ha quando la donna si infetta per la prima volta in gravidanza. Il rischio per il feto dovuto ad una seconda infezione materna da Cytomegalovirus (riattivazione dell’infezione latente o reinfezione con ceppo virale diverso) comporta un rischio di danno fetale considerato non superiore a quello insito nella gravidanza di per sé (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012; Fowler et al., 2003).
c) IgM positive e IgG negative: è necessario accertare con un test successivo la sieroconversione delle IgG. Se la negatività delle IgG persiste, si tratta di un falso positivo (infezione non presente) o di una reazione crociata ad altre infezioni (ad esempio Parvovirus, Toxoplasma gondii, Epstein-Barr virus) o di reattività del sistema immunitario causata da malattie autoimmuni (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012). La sieroconversione delle IgG si osserva quando la persona si infetta per la prima volta (prima infezione recente). La sieroconversione si ha quando, prelevati due campioni biologici in un arco di tempo di 1-3 mesi, il primo è negativo e il secondo è positivo per le IgG anti-CMV.
Le IgM non possono essere utilizzate, da sole, come marker di prima infezione recente perché possono essere presenti anche durante una seconda infezione da CMV. La positività delle IgM combinata ad una bassa avidità delle IgG è però indicativa di prima infezione recente. Alle donne fertili che risultano affette da una prima infezione da Cytomegalovirus, le linee guida raccomandano di attendere da 6 a 12 mesi prima di cercare una gravidanza (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012).

Nelle donne in gravidanza con infezione primaria da Cytomegalovirus la ricerca del virus o di suoi componenti biologici (test virologici) non ha un ruolo primario nella diagnosi perché un risultato positivo conferna l’infezione primaria, ma un risultato negativo non esclude l’infezione (la donna può essere infetta, anche se il virus nel sangue non viene trovato). Inoltre, la presenza del virus nel sangue non correla né con l’andamento clinico dell’infezione, né con il rischio di trasmissione materno fetale e neppure con il grado di compromissione del feto (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012).

Nel feto, la diagnosi di infezione si basa sull’esame ecografico e sulla diagnostica fetale invasiva. L’esame ecografico permette di rilevare malformazioni fetali riconducibili all’infezione, ma l’indagine è poco sensibile perché l’ecografia eseguita a 20-21 settimane di gravidanza permette di identificare fino ad un massimo del 20% dei casi. Pertanto un’ecografia fetale nella norma non esclude il rischio di anomalie alla nascita. Sono comunque indicati altri due controlli ecografici, a 27-29 settimane e 30-32 settimane, per verificare l’accrescimento intrauterino del feto ed eventualmente rilevare anomalie tardive (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012).

In alcuni casi selezionati può essere indicato eseguire una risonanza magnetica fetale dopo la 22-23esima settimana di gestazione (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012).

La diagnosi fetale invasiva si basa sull’esecuzione dell’amniocentesi non prima della 20-21esima settimana di gestazione e almeno 6-8 settimane dopo il contagio materno (tempo necessario al virus per contagiare la placenta, arrivare al sangue fetale e contagiare gli organi). Nel feto l’organo principale dove avviene la replicazione virale è il rene, per cui il virus viene eliminato con la diuresi fetale nel liquido amniotico. A 20-21 settimane, la quantità di urina prodotta dal feto è sufficiente per consentire di individuare il virus nel liquido amniotico. La ricerca del virus nel liquido amniotico viene eseguita tramite PCR o isolamento del virus. Se la quantità di virus presente è minima (<1000 copie/ml liquido amniotico), la probabilità di anomalie fetali o conseguenze tardive post natali (ad esempio deficit dell’udito o ritardo nello sviluppo psico-motorio) possono essere considerate minime. Se il carico virale nel liquido amniotico è elevato, il rischio di infezione severa è elevato, ma anche in questo caso, bisogna tener presente che il 40-50% dei neonati con infezione congenita è asintomatico alla nascita (Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012).

Nei neonati, la diagnosi si basa sull’esame colturale oppure sulla ricerca del genoma virale mediate PCR (Polymerase Chain Reaction) su campioni biologici quali urina, saliva, tessuto (la sensibilità dei test è maggiore utilizzando la saliva o le urine; i Centers for Disease Control and Prevention indicano come test di riferimento la PCR sulla saliva, mentre come test di conferma la PCR sulla urine). Se si utilizza la saliva, il campione deve essere prelevato lontano dalla poppata nel caso il bambino sia allattato al seno per il rischio di contaminazione con il latte materno che potrebbe essere infetto. Sulla base dei dati più recenti forniti dallo studio CHIMES (CMV and Hearing Multicenter Screening) il test della PCR può essere considerato equiparabile alla coltura virale, considerato il metodo di riferimento per la diagnosi neonatale (Ross et al., 2014; Gruppo multidisciplinare “Malattie infettive in ostetricia-ginecologia e neonatologia”, 2012). I campioni biologici da utilizzare per i test devono essere prelevati nelle prime 2-3 settimane di vita; se i test sono eseguiti dopo questo periodo non è più possibile distinguere se l’infezione da CMV è congenita o è stata acquisita dopo la nascita (Centers for Disease Control and Prevention – CDC, 2018 e 2018c).

La diagnosi differenziale nei neonati viene fatta per toxoplasmosi, rosolia, virus della coriomeningite linfocitica, sifilide. Nei neonati positivi al virus, sono raccomandati ulteriori esami per individuare eventuali danni: tomografia computerizzata (TC) o ecografia cerebrale per accertare/escludere presenza di calcificazioni ventricolari; test di funzionalità epatica; test dell’udito, da ripetere nel tempo perché il deficit uditivo può essere progressivo; esame della funzionalità visiva per evidenziare eventuali problemi alla vista.