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Osteoporosi

Farmaci e terapie

Quali farmaci per l'Osteoporosi?

Il trattamento dell’osteoporosi si pone come obiettivo quello di ridurre il rischio di fratture (Rossini et al., 2016). La soglia d’intervento dipende dal rischio di frattura del singolo paziente a cui concorrono sia i dati diagnostici sia i fattori di rischio clinici (età, fumo, magrezza, terapia cortisonica, etc.). La scelta di un farmaco poi deve essere sottoposta ad una attenta analisi del rapporto rischio/beneficio per il singolo paziente.

I farmaci attualmente disponibili per il trattamento dell’osteoporosi comprendono:

Inoltre sono impiegati in commercio le seguenti combinazioni:

Calcio/Vitamina D
Il calcio è un minerale essenziale per la formazione e mantenimento del tessuto osseo. L’impiego terapeutico è indicato negli stati carenziali da insufficiente apporto dietetico o da patologie a carico di intestino e rene.

Il fabbisogno giornaliero medio di calcio è pari a 500-900 mg (bambini, 1-10 anni); 1100 mg (maschi, 11-17 anni; femmine, 11-14 anni); 1000 mg (femmine, 15-17 anni); 800 mg (maschi e femmine, 18-59 anni); 1000 mg (maschi e femmine, > 60 anni); 1000 mg (gravidanza); 800 mg (allattamento) (Società Italiana di Nutrizione Umana – SINU, 2014).

L’assunzione giornaliera raccomandata di calcio nella popolazione è pari a 700 mg (bambini, 1-3 anni); 900 mg (bambini, 4-6 anni); 1100 mg (bambini, 7-10 anni); 1300 mg (maschi, 11-17 anni e femmine, 11-14 anni); 1200 mg (femmine, 15-17 anni); 1000 mg (maschi e femmine, 18-59 anni); 1200 mg (maschi e femmine, > 60 anni); 1200 mg (gravidanza); 1000 mg (allattamento) (Società Italiana di Nutrizione Umana – SINU, 2014).

Il calcio è generalmente somministrato come calcio carbonato. E’ assorbito nel duodeno per circa il 30%, con trasporto attivo, saturabile, dipendente dalla vitamina D. Il calcio è eliminato con le urine, le feci e il sudore. Nelle urine, l’escrezione di calcio è strettamente dipendente dalla sua filtrazione glomerulare e dal suo riassorbimento tubulare.

La vitamina D, liposolubile, interviene nell’assorbimento intestinale del calcio e nel suo riassorbimento a livello renale. Il fabbisogno giornaliero medio di vitamina D è pari a 10 microgrammi (indipendentemente dall’età); l’assunzione giornaliera raccomandata è pari a 15 microgrammi per uomini e donne con età compresa fra 60 e 74 anni e pari a 20 microgrammi per uomini e donne con età =/> 75 anni (Società Italiana di Nutrizione Umana – SINU, 2014).

La vitamina D è assorbita nell’intestino tenue, legata a specifiche alfa-globuline, e trasportata nel fegato dove viene convertita a 25-idrossi-colecalciferolo. Nel rene la vitamina idrossilata subisce una seconda idrossilazione a 1,25-diidrossi-colecalciferolo; sotto questa forma, la vitamina D favorisce l’assorbimento del calcio. La vitamina D non metabolizzata si accumula nel tessuto adiposo; è eliminata con feci e urine.

Nel trattamento dell’osteoporosi, il calcio è solitamente associato alla vitamina D (colecalciferolo). La combinazione richiede il monitoraggio della funzionalità renale e dei livelli di calcio nel sangue (ipercalcemia/ipocalcemia). In caso di ipercalcemia e/o insufficienza renale la dose di calcio deve essere rivista e se la concentrazione di calcio nelle urine supera i 300 mg nelle 24 ore, il trattamento di supplementazione deve essere interrotto. La combinazione calcio/vitamina D richiede cautela in caso di sarcoidosi per il possibile aumento del metabolismo della vitamina D nella sua forma attiva (1,25-diidrossi-colecalciferolo); in associazione a glucosidi cardiaci, diuretici, fenitoina, barbiturici, difosfonato, fluoruro di sodio, tetracicline (con difosfonato, fluoruro di sodio e tetracicline la somministrazione di calcio/vitamina D deve essere posticipata di almeno 3 ore).

In caso di sovradosaggio, che si manifesta con elevati livelli di calcio nel sangue (calcemia) o nelle urine (calciuria), possono comparire nausea, vomito, sete, costipazione, disidratazione; i sovradosaggi cronici possono portare a calcificazione dei vasi e degli organi. In caso di sovradosaggio interrompere la supplementazione di calcio carbonato/vitamina D3 e reidratare il paziente. In gravidanza l’assunzione di dosi elevate di vitamina D (> 10000 UI) è stata associata ad effetti teratogeni; l’ipercalcemia può portare a ritardo nello sviluppo fisico e mentale del bambino, inclusa stenosi aortica sopraventricolare e retinopatia.

Bifosfonati
I bifosfonati sono farmaci impiegati nel trattamento dell’osteoporosi, in particolare dell’osteoporosi in donne in post-menopausa, perché in grado di aumentare la densità ossea per inibizione degli osteoclasti (le cellule deputate al rimodellamento osseo) e ridurre il rischio di frattura da fragilità dell’osso.

I bifosfonati comprendono i seguenti principi attivi: acido alendronico, acido clodronico, acido etidronico, acido risedronico, acido ibandronico, acido zolendronico. Il meccanismo d’azione cambia dipendentemente dalla presenza o assenza di un gruppo amminico nella struttura chimica. Tutti i bifosfonati sono caratterizzati dal un assorbimento intestinale molto basso (0,5-5%).

La durata della terapia con bifosfonati non è stata ancora stabilita. Con l’acido alendronico e zolendronico, gli effetti di inibizione del turnover osseo si protraggono per alcuni mesi dopo l’interruzione del trattamento. E’ necessario pertanto che ogni singolo paziente sia periodicamente rivalutato alla luce dei benefici/rischi associati alla terapia, soprattutto se in trattamento da più di 5 anni. Per i pazienti che assumono bifosfonati da più di 5 anni che presentano un basso rischio di frattura ossea, le linee guida raccomandano una sospensione dei farmaci, mentre per i pazienti con rischio di frattura elevato (T-score al femore < -2,5 oppure T-score al femore < -2 e precedenti fratture vertebrali) i bifosfonati devono essere assunti fino a 10 anni (durata massima della terapia indagata nei trial clinici) (Rossini et al., 2016).

L’uso di bifosfonati è stato associato a possibili rischi di fratture atipiche del femore soprattutto nei pazienti trattati per osteoporosi per lungo tempo. Si tratta di un effetto di classe raro (incidenza: da 3,5 a 50 casi per 100.000 persone anno) ma correlato alla durata della terapia. Il comitato europeo per i medicinali (CHMP, Committee for Medicinal Products for Human Use) che ha revisionato i dati di letteratura ha osservato come il rischio di fratture atipiche fosse attribuibile al meccanismo d’azione dei bifosfonati che potrebbe indurre un rallentamento nel processo di riparazione delle fratture da stress (fratture da insufficienza) dovute a cause naturali (il meccanismo preciso non è noto). Data l’incidenza molto bassa di questo effetto collaterale, il CHMP ha comunque giudicato i benefici terapeutici dei bifosfonati superiori ai potenziali rischi nel trattamento delle fratture da fragilità (European Medicines Agency – Ema, 2012; Rossini et al., 2016). Per ridurre il rischio da fratture atipiche, le linee guida italiane per l’osteoporosi raccomandano di rivalutare periodicamente l’opportunità del trattamento con bifosfonati soprattutto nei pazienti trattati per osteoporosi per più di 5 anni; di considerare, se possibile, dei periodi di sospensione della terapia; di correggere eventuali fattori di rischio per frattura atipica (terapia cronica con corticosteroidi o inibitori di pompa protonica, bassi livelli di vitamina D, presenza di malattie dello scheletro diverse dall’osteoporosi) (Rossini et al., 2016).

Altri aspetti che devono essere tenuti in considerazione in caso di assunzione di bifosfonati comprendono la tollerabilità gastrointestinale e renale, la reazione di fase acuta e il rischio di osteonecrosi della mascella e della mandibola.

I bifosfonati che contengono un gruppo amminico (sono esclusi quindi l’acido clodronico, l’acido etidronico e l’acido tiludronico) somministrati per bocca possono causare erosioni all’esofago anche gravi. Il problema è stato parzialmente risolto con l’impiego di formulazioni da somministrare una volta alla settimana o una volta al mese e seguendo precise indicazioni: assumere il farmaco con abbondante acqua, al mattino, in posizione eretta (in piedi) circa 30 minuti prima della colazione. I bifosfonati orali non vanno assunti prima di coricarsi o prima di alzarsi dal letto.

I bifosfonati somministrati per via orale o per via parenterale (endovenosa) nel trattamento dell’osteoporosi presentano una buona tollerabilità renale. I bifosfonati sono escreti nei reni per filtrazione glomerulare passiva e per trasporto attivo nel tubulo renale prossimale. La somministrazione per endovena richiede una buona idratazione del paziente. I dati clinici infatti suggeriscono che eventuali danni renali associabili alla somministrazione endovena dei bifosfonati possano dipendere dal tempo di infusione e dalla dose somministrata (Miller et al., 2013). Se autorizzati i bifosfonati possono essere somministrati in caso di ridotta funzionalità renale, eventualmente dopo un aggiustamento della dose di farmaco. Rimane la controindicazione per l’acido zoledronico dell’uso in pazienti con velocità di filtrazione glomerulare corretta (eGFR) inferiore a 35 ml/min (Miller et al., 2013; Rossini et al., 2016).

La somministrazione di bifosfonati per via endovenosa può provocare una sindrome simil influenzale della durata di 1-3 giorni (reazione di fase acuta). Tale reazione è stata osservata anche con bifosfonati somministrati per via orale a dose elevata. Raramente la reazione di face acuta può comparire con sintomi più severi e per più giorni; in tali casi piò essere indicato somministrare una terapia steroidea (Rossini et al., 2016).

Quando i bifosfonati sono utilizzati in oncologia (ipercalcemia tumorale, osteolisi tumorale, profilassi eventi scheletrici in pazienti con metastasi ossee), a dosi molto più elevate di quelli indicati nel trattamento dell’osteoporosi, possono provocare l’osteonecrosi dell’osso mascellare/mandibolare (rischio fino all’1%). In alcuni casi, questo grave effetto collaterale è stato osservato anche in pazienti trattati con bifosfonati per osteoporosi, sottoposti ad interventi nel cavo orale con interessamento del tessuto osseo. Ne consegue l’opportunità prima di iniziare una terapia con bifosfonati di effettuare eventuali interventi odontoiatrici programmati (al più intervenire entro i primi sei mesi di terapia) e di mantenere una corretta igiene dentale per ridurre il rischio di intervenire successivamente (Rossini et al., 2016).
Le linee guida italiane per l’osteoporosi non controindicano l’esecuzione di interventi odontoiatrici anche invasivi (come ad esempio l’estrazione di un dente) in pazienti in terapia con bifosfonati da meno di tre anni, in assenza di fattori di rischio individuali (diabete, immunosoppressione, steroidi, fumo, alcol) perché il rischio di osteonecrosi della mascella/mandibola risulta comunque molto basso. Nei pazienti in terapia con bifosfonati da più di tre anni (aderenza alla terapia > 80%), che devono sottoporsi ad intervento chirurgico odontoiatrico, diverse linee guida raccomandano la sospensione per tre mesi dei bifosfonati e la ripresa della terapia alla guarigione della ferita chirurgica, ma non sono disponibili evidenze scientifiche che attestino una riduzione del rischio di osteonecrosi con la sospensione temporanea del bifosfonato. La sospensione del bifosfonato per uno o due mesi, comunque, non compromette l’efficacia della terapia anti-osteoporosi. Alcuni autori consigliano la sospensione dell’assunzione del bifosfonato dopo l’intervento chirurgico odontoiatrico (estrazione) fino alla guarigione della ferita. In caso di estrazione dentaria, in pazienti in terapia con bifosfonati, soprattutto se presentano fattori di rischio individuale, le linee guida italiane per l’osteoporosi consigliano la copertura antibiotica per 10-15 giorni da iniziare 2-5 giorni prima dell’intervento fino a 10-15 giorni dopo. Le stesse linee guida riportano come non ci sia controindicazione per l’esecuzione di interventi di implantologia in pazienti in terapia con bifosfonati (in letteratura i casi di osteonecrosi della mascella/mandibola associata a interventi di implantologia segnalati sono 12 (stima di rischio di perdita dell’impianto: 0,88%) (Rossini et al., 2016).

Acido alendronico
L’acido alendronico è indicato per il trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa e negli uomini e per la profilassi e trattamento dell’osteoporosi da glucocorticoidi in pazienti di entrambi i sessi. La dose raccomandata è di 10 mg al giorno.
Gli effetti dell’alendronato sulla massa ossea e sull’incidenza di fratture in donne in post-menopausa sono stati esaminati in due studi iniziali di efficacia e nel Fracture Intervention Trial (FIT 1). Nei due studi inziali di efficacia l’alendronato (10 mg/die) è stato associato ad aumenti di densità minerale ossea (BMD), dopo tre anni, pari a 8,8% (colonna vertebrale), 5,9% (collo del femore), 5,9% (trocantere) rispetto al gruppo placebo. Nelle donne trattate con il farmaco è risultata aumentata, in maniera significativa, anche la BMD riferita all’organismo in toto. Nel gruppo trattato la percentuale di pazienti che hanno subito una o più fratture vertebrali si è ridotta del 48%. Nei due anni di estensione degli studi, la BMD della colonna vertebrale e del trocantere ha continuato ad aumentare, mentre la BMD del collo del femore e dell’organismo in toto si è mantenuta costante (Liberman et al., 1995). Nello studio FIT la somministrazione quotidiana di acido alendronico (5 mg/die per 2 anni, 10 mg/die per un anno) ha ridotto l’incidenza di nuove fratture (=/>1) a livello della colonna vertebrale del 47% (fratture: 7,9% vs 15,0% rispettivamente con acido alendronico e placebo) e a livello di anca del 51% (fratture: 1,1% vs 2,2% rispettivamente con alendronato e placebo) (Black et al., 2000; Cummings et al., 1998).
Significativi incrementi della densità minerale ossea sono stati osservati anche nel trattamento dell’osteoporosi nella popolazione maschile (dopo due anni con acido alendronico 10 mg/die, BMD: +5,3% colonna lombare, +2,6% collo del femore, +3,1% trocantere, +1,6% organismo in toto; fratture vertebre: 0,8% vs 7,1%) e nell’osteoporosi da glucocorticoidi.

Acido clodronico
L’acido clodronico è un bifosfonato privo di gruppo amminico, come l’acido etidronico. E’ autorizzato nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa e nelle forme tumorali associate ad un incremento del turnover osseo.
L’acido clodronico inibisce formazione e dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite (fosfato di calcio tribasico), il principale costituente minerale presente nel tessuto osseo.
La dose raccomandata di farmaco dipende dalle condizioni cliniche del paziente. In Italia la dose abitualmente impiegata nel trattamento dell’osteoporosi è di 100 mg/settimana per via intramuscolare (Rossini et al., 2016). L’uso prolungato del farmaco è associato a difetti di mineralizzazione ossea; nel trattamento dell’osteoporosi, il clodronato è inserito tra i farmaci di seconda linea, soprattutto in prevenzione primaria (Rossini et al., 2016).

Acido ibandronico
L’acido ibandronico è un bifosfonato indicato per il trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa ad elevato rischio di frattura; nel trattamento dell’ipercalcemia tumorale e nella prevenzione di eventi scheletrici in pazienti oncologici con compromissione ossea.
Nel trattamento dell’osteoporosi la dose raccomandata di acido ibandronico è pari a 150 mg una volta al mese per via orale oppure a 3 mg per endovena ogni 3 mesi. Si tratta di dosaggi cumulativi-biodisponibili doppi rispetto a quelli utilizzati negli studi utilizzati per la registrazione del farmaco (2,5 mg/die). Alla dose di 2,5 mg/die, l’acido ibandronico è risultato efficace nel ridurre il rischio di fratture vertebrali; il dosaggio di 150 mg/mese ha evidenziato efficacia anche nel prevenire le fratture non vertebrali (Rossini et al., 2016).

Acido neridronico
L’acido neridronico è l’unico bifosfonato indicato per il trattamento dell’osteogenesi imperfetta. Altre indicazioni comprendono: malattia di Paget e algodistrofia.
L’osteogenesi imperfetta può essere considerata assimilabile a qualsiasi forma di osteoporosi idiopatica giovanile. L’osteogenesi imperfetta, anche nota come malattia delle ossa di vetro o malattia delle ossa fragili, è causata (95% dei casi) da mutazioni dei geni che codificano per le catene alfa1 e alfa2 del collagene di tipo 1 (www.orpha.net). Può manifestarsi a qualsiasi età ed è classificabile in 5 sottotipi a seconda della gravità delle manifestazioni cliniche.

Acido risedronico
L’acido risedronico è indicato per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale per ridurre il rischio di fratture vertebrali e dell’anca e dell’osteoporosi negli uomini ad elevato rischio di fratture. E’ indicato anche nel mantenere od aumentare la massa ossea nelle donne in post-menopausa in terapia corticosteroidea prolungata (> 3 mesi; prednisone =/> 7,5 mg/die o corticosteroide equivalente) e nel trattamento della malattia di Paget.
L’acido risedronico è un piridinilbifosfonato che si fissa all’idrossiapatite dell’osso inibendo il riassorbimento del tessuto ad opera degli osteoclasti. Il turnover osseo viene in questo modo ridotto, mentre la formazione di nuovo tessuto (per azione degli osteoblasti) e la mineralizzazione rimangono costanti (Dunn, Goa, 2001).
Nel trattamento dell’osteoporosi lo schema posologico prevede la somministrazione di 35 mg una volta alla settimana oppure di 75 mg per due giorni consecutivi, una volta al mese (dose mese: 150 mg). Per non influenzare l’assorbimento intestinale, l’acido risedronico deve essere assunto con acqua naturale, 30 minuti prima di mangiare o di altri farmaci.
In base agli effetti sulla densità ossea la somministrazione di 75 mg per due giorni consecutivi al mese si è dimostrata equivalente alla somministrazione giornaliera di 5 mg in donne in post-menopausa con osteoporosi avanzata. La somministrazione di acido risedronico per tre anni (5 mg/die) è risultata aumentare la densità ossea vertebrale del 6%.

Acido zoledronico
L’acido zoledronico è un bisfosfonato autorizzato per il trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa e negli uomini quando il rischio di fratture ossee risulta aumentato, nel trattamento dell’osteoporosi da glucocorticoidi nelle stesse due categorie precedenti di pazienti e nel trattamento del morbo di Paget. L’acido zoledronico è indicato anche nel trattamento dell’ipercalcemia neoplastica e nella prevenzione di eventi scheletrici (fratture, schiacciamenti vertebrali) in pazienti con tumore avanzato e coinvolgimento osseo.
Nel trattamento dell’osteoporosi, la dose raccomandata di acido zoledronico è di 5 mg per via endovena una volta all’anno. Nello studio di registrazione del farmaco, l’acido zoledronico è risultato efficace nel ridurre il rischio di frattura vertebrale spinale, non vertebrale e di femore dopo tre anni di terapia (Black et al., 2007). Nello studio di estensione a 3 anni, la somministrazione continuata di zoledronato è stata associata a mantenimento della densità minerale ossea, a riduzione delle fratture vertebrali morfometriche e a una modesta diminuzione del turnover osseo, mentre non sono emerse differenze in termini di fratture non vertebrali (Black et al., 2012). Nel secondo studio di estensione che ha portato il trattamento con acido zoledronico a 9 anni, i valori di massa ossea a livello femorale sono rimasti costanti in assenza di benefici ulteriori in termini di densità minerale ossea, turnover osseo e nuove fratture. Non solo nelle pazienti trattate per 9 anni è stato osservato un aumento, piccolo, di aritmia cardiaca (Black et al., 2015).
L’acido zoledronico è stato associato, per la prima volta, ad una riduzione della mortalità globale (Rossini et al., 2016).
L’acido zoledronico, somministrato a pazienti uomini con osteoporosi primaria, con o senza ipogonadismo, è risultato efficace nel ridurre l’incidenza di fratture vertebrali morfometriche dopo 2 anni di terapia (1,6% vs 4,9% rispettivamente con zoledronato e placebo; riduzione del rischio pari a 67%) (Boonen et al., 2012).

Acido Etidronico, Acido pamidronico, Acido tiludronico, Acido Incadronico
L’acido etidronico, l’acido pamidronico e l’acido tiludronico sono bifosfonati non impiegati nel trattamento dell’osteoporosi.
L’acido etidronico è un bifosfonato privo di gruppo aminico. E’ indicato nel trattamento della malattia di Paget sintomatica e nella prevenzione/trattamento dell’ossificazione eterotopica dopo sostituzione completa dell’anca oppure in seguito lesione del midollo spinale (non sono disponibili specialità medicinali in Italia).
L’acido pamidronico è un bifosfonato amminico indicato nel trattamento dell’osteolisi tumorale, nell’ipercalcemia tumorale e nella prevenzione di eventi scheletri in pazienti con metastasi ossee.
L’acido tiludronico è un bifosfonato non amminico non disponibile in Italia (negli USA è commercializzato con il brand Skelid) indicato per il trattamento della malattia di Paget.
L’acido incadronico è un bifosfonato amminico di terza generazione utilizzato nel trattamento dell’ipercalcemia tumorale e nell’osteoporosi. E’ disponibile in commercio in Cina (specialità commerciale Yin Fu, prodotto da Renfu Pharmaceuticals) e Tailandia (specialità commerciale Bisphonal, prodotto da Astellas).

Teriparatide
La teriparatide è indicata nel trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa e negli uomini ad elevato rischio di fratture, e nel trattamento dell’osteoporosi da glucocorticoidi. Il farmaco è ottenuto per manipolazione dell’ormone paratiroideo umano (PTH), rappresenta infatti la porzione farmacologicamente attiva dell’ormone umano. L’ormone paratiroideo svolge una funzione essenziale nella regolazione dell’omeostasi di calcio e fosforo, quindi del metabolismo osseo. La somministrazione giornaliera di teriparatide stimola sia la crescita di nuovo tessuto osseo che il rimodellamento, con una marcata prevalenza del primo. Il risultato netto è un aumento della densità ossea (soprattutto nel primo anno di terapia) nelle regioni trabecolari delle ossa della colonna vertebrale e del femore. La somministrazione per via sottocutanea è l’unica che garantisce un assorbimento elevato di farmaco (95%) (le altre vie di somministrazione sono gravate da un elevato effetto di primo passaggio epatico). La teriparatide non si lega alle proteine plasmatiche, subisce esteso metabolismo epatico ed è escreta prevalentemente per via renale.
L’aumento di densità minerale ossea (BMD) ottenuto con teriparatide (+10% dopo 18 mesi di terapia) è più elevato di quello osservato con i bifosfonati. Il farmaco migliora comunque anche alcune caratteristiche geometriche dell’osso corticale che sono correlate alla resistenza alle fratture. L’assunzione di teriparatide per una media di 18 mesi è stata associata ad una riduzione delle fratture vertebrali del 65% e delle fratture non vertebrali del 53% (Neer et al., 2001). La dose raccomandata di teriparatide è di 20 microgrammi al giorno per via sottocutanea per una durata delle terapia non superiore ai 18-24 mesi. Gli effetti collaterali associati al farmaco comprendono crampi alle gambe, nausea e vertigini. Poiché la teriparatide è risultata aumentare il rischio di osteosarcoma nei ratti, non è indicata nei pazienti con fattori di rischio per osteosarcoma (pazienti con malattia di Paget, pazienti sottoposti a terapia radiante dello scheletro), pazienti con metastasi ossee, pazienti con ipercalcemia, pazienti che hanno avuto precedenti tumori alle ossa (Cosman et al., 2014).
Dopo la sospensione della terapia con teriparatide, si osserva un rapido declino della densità ossea.
La teriparatide può essere associata ad acido zoledronico o a denosumab in caso di pazienti con rischio molto elevato per fratture ossee (pazienti con fratture vertebrali multiple o di femore).
Poiché la teriparatide è un farmaco costoso è raccomandata per la prevenzione secondaria in caso di osteoporosi severa con rischio di frattura elevato o non responsiva al trattamento con farmaci che inibiscono il riassorbimento osseo (Rossini et al., 2016).

Denosumab
Denosumab è un anticorpo monoclonale umano (immunoglobulina della classe G, IgG2) che blocca una particolare citochina (RANKL) che legandosi a specifici recettori (RANK) presenti sulla membrana di superficie di osteoclasti (immaturi e maturi) ne regola il reclutamento, la maturazione e la sopravvivenza. Il denosumab blocca pertanto il riassorbimento osseo come i bifosfonati. Rispetto a questi ultimi presentano alcune differenze: a) l’azione farmacologica cessa immediatamente con la scomparsa del farmaco dalla circolazione sanguigna; b) l’azione farmacologica è indipendente dal turnover osseo, per cui risulta maggiore per le ossa corticali (l’aumento della densità minerale ossea è più alta di quella osservata con i bifosfonati più potenti soprattutto per le ossa corticali); c) l’azione farmacologica è continua per cui la densità minerale ossea continua ad aumentare (con altri farmaci inibenti il riassorbimento osseo, la densità ossea aumenta per 3-4 anni per poi stabilizzarsi) (Rossini et al., 2016).
Il denosumab è indicato nel trattamento dell’osteoporosi in postmenopausa quando il rischio di frattura è elevato, per aumentare la massa ossea negli uomini ad elevato rischio di frattura, per trattare la perdita di massa ossea nelle donne con tumore al seno in terapia con farmaci inibitori dell’enzima aromatasi e per trattare la perdita di massa ossea negli uomini con tumore alla prostata in terapia ormonale ablativa ad elevato rischio di fratture.
Nelle donne in post-menopausa con osteoporosi, il denosumab è stato associato ad una riduzione delle fratture vertebrali del 68%, delle fratture del femore del 40% e delle fratture non vertebrali del 20% dopo 3 anni di trattamento (Cummings et al., 2009).
La dose raccomandata è pari a 60 mg ogni 6 mesi per via sottocutanea. Il trattamento con denosumab deve essere associato a supplementazione di calcio e vitamina D. In associazione a teriparatide o in terapia sequenziale con teriparatide è stato osservato un ulteriore incremento della densitometria ossea.
Trattandosi di un anticorpo, il denosumab segue le vie metaboliche delle immunoglobuline naturali. Il farmaco non riechiede aggiustamenti del dosaggio dipendenti dalla funzionalità renale, epatica o dall’età del paziente. L’effetto collaterale più osservato è l’ipocalcemia, che deve essere corretta, se presente, prima di iniziare la terapia farmacologica (il denosumab è controindicato in caso di ipocalcemia). Altri effetti collaterali comprendono infezioni cutanee, cataratta, diverticolite, ipersensibilità. In rari casi, il denosumab è stato associato a osteonecrosi della mascella/mandibola e alla compresa di fratture femorali atipiche (da ricondurre al meccanismo d’azione di inibizione del turnover osseo).

Modulatori selettivi del recettore estrogenico
I modulatori selettivi del recettore estrogenico (SERMs, Selective Estrogen Receptor Modulator) sono composti che interagiscono con i recettori degli estrogeni come agonisti o antagonisti a seconda del tessuto/organo bersaglio (agonisti su ossa, fegato; antagonisti su mammella, apparato genitourinario). In Italia i farmaci appartenenti a questa classe approvati per il trattamento dell’osteoporosi sono il raloxifene e il bazedoxifene.

Il raloxifene è un SERM di seconda generazione indicato per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale. Il farmaco previene la perdita di massa ossea e riduce il rischio di fratture vertebrali del 30-50% (dopo tre anni di terapia con raloxifene 60 mg/die) in donne in post-menopausa con basso indice di massa ossea e osteoporosi con o senza precedenti fratture vertebrali (studio clinico MORE) (Delmas et al., 2003; Ettinger et al., 1999). Nelle donne con severe fratture vertebrali all’inizio del trattamento con raloxifene, la valutazione post hoc dei dati clinici dello studio MORE ha evidenziato una significativa riduzione delle fratture non vertebrali. L’analisi ha rivelato che nelle donne ad elevato rischio di fratture, per prevenire una nuova frattura vertebrale è necessario trattare 10 pazienti con raloxifene 60 mg/die per tre anni, mentre per prevenire una nuova fratture non vertebrale, le pazienti da trattare sono 18 (Delmas et al., 2003).
L’efficacia terapeutica di raloxifene è stata osservata anche in donne affette da osteopenia ed è risultata indipendente dal grado di rischio per frattura ossea (Kanis et al., 2003).
Gli effetti collaterali più comuni associati all’uso di raloxifene nel trattamento dell’osteoporosi comprendono fenomeni vasomotori e crampi alle gambe. Il farmaco può indurre trombosi venosa profonda e pertanto non è raccomandato in pazienti a rischio.
Nello studio MORE, il raloxifene è stato associato ad una marcata riduzione (di circa il 60%) del rischio di carcinoma della mammella invasivo (Cummings et al., 1999). Il dato è stato poi successivamente confermato in altri due ampi studi di coorte (Vogel et al., 2006).
Nelle donne in post-menopausa ad elevato rischio cardiovascolare, il raloxifene non è risultato influenzare il tasso di morte cardiovascolare, né l’incidenza di malattia coronarica o ictus (Barrett-Connor et al., 2006).
Somministrato per via orale, il raloxifene viene assorbito nel tratto gastrointestinale (60% circa della dose). Il farmaco subisce un esteso processo metabolico di primo passaggio (biodisponibilità orale pari al 2%) in seguito al quale si formano diversi metaboliti (glicuronidi). L’emivita è di 28 ore. Sia il raloxifene che i metaboliti sono escreti per via fecale in circa 5 giorni; meno del 6% della dose è escreta nelle urine.

Il bazedoxifene è un SERM di terza generazione indicato per il trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa con un rischio aumentato di frattura ossea (Gennari et al., 2008). Il farmaco è anche indicato per il trattamento dei sintomi associati alla menopausa nelle donne che non hanno subito l’asportazione dell’utero (cioè non isterectomizzate) e che non possono essere trattate con progestinici. Nel trattamento dell’osteoporosi la dose raccomandata di bazedoxifene è pari a 20 mg/die.
Il bazedoxifene è risultato associato ad una riduzione significativa delle fratture vertebrali (42% e 37% con bazedoxifene rispettivamente 20 e 40 mg/die dopo 3 anni di terapia) con una persistenza dell’effetto nel tempo (riduzione fratture a 5 anni: 32%) (Silverman et al., 2008 e 2012). Nello studio della durata di 3 anni, l’analisi dei dati in una sottopopolazione di pazienti, donne in post-menopausa ad elevato rischio di fratture, ha evidenziato una riduzione significativa delle fratture non vertebrali con il bazedoxifene (fino al 50%) (Silverman et al., 2008). Gli effetti del farmaco sulle fratture non vertebrali sono stati osservati anche al termine dell’estensione di 2 anni dello studio di 3 anni (Silverman et al., 2012).
A differenza del raloxifene, l’efficacia terapeutica del bazedoxifene dipende dal rischio iniziale di frattura ossea (Kanis et al., 2009).
Il bazedoxifene non è stato studiato in pazienti con grave insufficienza renale od epatica. Deve essere utilizzato con cautela in caso di ipertrigliceridemia perché può aumentare i livelli di trigliceridi nel sangue e non è raccomandato in pazienti con rischio elevato di tromboembolia venosa.
La combinazione bazedoxifene più estrogeni coniugati equini (complesso selettivo tissutale dell’attività estrogenica o TSEC) è stata associata a riduzione del turnover osseo e ad aumento della densità minerale ossea (BMD) nella colonna vertebrale lombare e nell’anca totale in maniera paragonabile a quanto osservato con la terapia ormonale sostitutiva e maggiore rispetto alla monoterapia con bazedoxifene o raloxifene (Gambacciani, 2013). Comunque gli effetti dell’approccio TSEC in termini di riduzione del rischio di frattura e tollerabilità cardiovascolare, secondo quanto riportato sulle linee guida italiane per l’osteoporosi, richiedono ulteriori approfondimenti (Rossini et al., 2016).

Ranelato di stronzio
Il ranelato di stronzio è indicato nel trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa e negli uomini ad elevato rischio di frattura. È un farmaco non di prima linea, deve essere cioè utilizzato quando altre terapie per l’osteoporosi sono controindicate. In Italia lo stronzio ranelato può essere prescritto in regime di servizio sanitario nazionale (SSN) in prevenzione primaria e in prevenzione secondaria come farmaco di terza linea (Nota Aifa 79) (Agenzia Italiana del Farmaco - AIFA, 2015).
Il ranelato di stronzio è risultato ridurre il rischio di fratture vertebrali e dell’anca (Agenzia Italiana del Farmaco - AIFA, 2015; Meunier et al., 2004; Reginster et al., 2008; Freemantle et al., 2013).
Lo stronzio ranelato riequilibria il turnover del tessuto osseo. In vitro il farmaco è risultato aumentare la formazione di tessuto osseo, la replicazione dei precursori degli osteoblasti e la sintesi di collagene. In vivo il farmaco è stato associato ad un aumento della massa ossea trabecolare (aumento del numero e dello spessore delle trabecole) determinando un miglioramento della crescita ossea (Marie, 2005).
Il ranelato di stronzio è formato da due atomi di stronzio ed una molecola di acido ranelico; la parte attiva del farmaco è rappresentata dallo stronzio che, assorbito sulla superficie cristallina dell’osso, si sostituisce in misura limitata al calcio nel cristallo di idrossiapatite nell’osso di recente formazione. Il ranelato di stronzio non modifica le caratteristiche meccaniche dell’osso.
L’acido ranelico è caratterizzato da un basso legame con le proteine plasmatiche, non dà accumulo nell’organismo, non subisce metabolizzazione, viene eliminato rapidamente per via renale.
Dopo somministrazione orale, la biodisponibilità assoluta dello stronzio è pari al 25% della dose di farmaco somministrata (dose raccomandata: 2 g/die). L’assunzione del ranelato di stronzio con il cibo o con il calcio riduce la biodisponibilità del 60-70%. Poiché il farmaco viene assorbito lentamente, deve essere somministrato lontano dai pasti, preferibilmente prima di andare a letto (e almeno due ore dopo il pasto). La vitamina D non altera l’assorbimento del ranelato di stronzio. L’eliminazione di stronzio è indipendente dal tempo e dalla dose; la sua emivita è di circa 60 ore. Il catione è escreto per via renale e nel tratto gastrointestinale.
Nel trattamento dell’osteoporosi il ranelato di stronzio è stato valutato in due studi clinici della durata di 3 e 5 anni in donne in post-menopausa. Il farmaco è risultato ridurre il rischio di fratture vertebrali del 41%, di fratture non vertebrali del 16% e di fratture del femore del 36% dopo tre anni di terapia (Meunier et al., 2004). Tali percentuali sono state confermate nello studio della durata di 5 anni (Reginster et al., 2008).
La terapia con ranelato di stronzio può indurre una moderata alterazione dell’alvo e un aumento lieve del rischio tromboembolico soprattutto nei pazienti anziani; è stato inoltre associato ad un aumento del rischio di infarto miocardico (rischio relativo rispetto al placebo: 1,6 (Rossini et al., 2016) e raramente a gravi reazioni allergiche quali sindrome DRESS (rash farmacologico con eosinofilia e sintomi sistemici), sindrome di Stevens-Johnson e necrolisi tossica epidermica (European Medicines Agency - EMA, 2012). Il ranelato di stronzio è controindicato pertanto in pazienti con tromboembolismo venoso (TEV), in corso o avuto precedentemente e in pazienti che sono immobilizzati temporaneamente o permanentemente; nei pazienti a rischio di TEV con più di 80 anni, il farmaco deve essere somministrato con cautela (Nota Aifa 79). Il ranelato di stronzio è controindicato anche in pazienti affetti o che hanno sofferto di cardiopatia ischemica, arteriopatia periferica, patologie cerebrovascolari, ipertensione arteriosa non controllata. Il farmaco deve essere somministrato con cautela in caso di ipertensione trattata, dislipidemia, diabete, fumo, insufficienza renale cronica (Nota Aifa 79).

Terapia ormonale sostitutiva
Gli estrogeni riducono l’accelerazione del turnover osseo indotto dalla menopausa e prevengono la perdita di massa ossea in tutte le sedi scheletriche indipendentemente da età e durata della terapia. Dai dati di studi osservazionali e studi randomizzati controllati verso placebo in donne in post-menopausa, gli estrogeni sono risultati ridurre il rischio di frattura vertebrale e non vertebrale di circa il 30% indipendentemente dal valore iniziale di densità minerale ossea (BMD) (Delmas et al., 2002; Torgerson, Bell-Syer, 2001; Cauley et al., 2003). Con l’interruzione della somministrazione estrogenica (terapia ormonale sostitutiva), la perdita di massa ossea si ripresenta con le stesse caratteristiche iniziali, ma i benefici clinici (aumento della densità ossea e riduzione del rischio di frattura ossea) sembrano persistere per alcuni anni (Bagger et al., 2004).
Lo Studio Women’s Health Initiative (WHI) ha però messo in evidenza come i rischi a lungo termine della terapia ormonale sostitutiva (aumento del rischio di malattia coronarica, ictus, tumore al seno) superino i benefici clinici (riduzione del rischio di frattura ossea e di tumore al colon-retto) soprattutto per trattamenti di lunga durata e in caso di associazione estro-progestinica (Roussow et al., 2002; Wassertheil-Smoller et al., 2003; Chlebowski et al., 2003; Shumaker et al., 2003; Hays et al., 2003; Anderson et al., 2004). Lo studio WHI è stato condotto in donne in post-menopausa (età: 50-79 anni; donne arruolate: 16608) non sottoposte ad asportazione dell’utero, trattate con estrogeni coniugati (0,625 mg/die) più medrossiprogesterone acetato (2,5 mg/die) o placebo.
Attualmente, la terapia ormonale sostitutiva (con o senza progestinico) non è più indicata nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi con l’eccezione delle donne che soffrono dei sintomi legati alla menopausa (sindrome climaterica). In queste donne, soprattutto se tra i 50-55 anni, la somministrazione di estrogeni da soli (donne sottoposte ad asportazione dell’utero) o in associazione a progestinico (donne non sottoposte ad asportazione dell’utero) può essere considerata ancora “fisiologica” e può essere indicata oltre che per il trattamento della sindrome climaterica anche per la profilassi dell’osteoporosi (Linee guida italiane per l’osteoporosi) (Rossini et al., 2016).
In Italia è disponibile una combinazione di estrogeni coniugati più medrossiprogesterone (specialità medicinale: Premia). Tale farmaco è indicato per il trattamento dei sintomi associati a carenza di estrogeni nelle donne in post-menopausa e per la prevenzione dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di fratture che non possono assumere altri farmaci indicati per la prevenzione dell’osteoporosi. Il farmaco non è prescrivibile in regime di Servizio Sanitario Nazionale e richiede ricetta non ripetibile da rinnovarsi volta per volta.

Farmaci nel trattamento dell’osteoporosi
Riportiamo di seguito i farmaci impiegati nel trattamento dell’osteoporosi (le specialità medicinali autorizzate in Italia sono riportate in corsivo):

Bifosfonati

Analoghi dell’ormone paratiroideo

Anticorpi monoclonali

Modulatori selettivi del recettore estrogenico

Vari

Terapia ormonale sostitutiva