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Cannabis Sativa

Epidyolex, Sativex

Farmacologia - Come agisce Cannabis Sativa?

La Cannabis sativa, o canapa indiana, (fam. Moraceae, sottofam. Cannaboideae) è una pianta erbacea annuale, originaria dell’Asia centrale e occidentale, coltivata per le proprietà officinali (psicoattive) e per la canapa, fibra tessile naturale. La droga è costituita dalle infiorescenze femminili e dalle loro brattee, che nei climi originari, tropicali, sono munite di peli secretori pluricellulari nei quali si trova una resina contenenti i principi attivi, cannabinoidi, terpenoidi e flavonoidi.
La droga possiede nomi diversi a seconda della zona di provenienza e della parte usata: “bhang” in India, dove viene fumata da sola o con il tabacco; “haschich” in Arabia ed Egitto, ingerita spesso con miele e burro, indica più propriamente la resina ottenuta dalla droga; “marihuana o marijuana” in Messico e USA, dove è fumata mescolata con il tabacco.

In India, Cina e nei paesi arabi l’uso della Cannabis come medicamento è molto antico (alcuni parlano di 10.000 anni); accanto a quest’impiego vi è poi quello “voluttuario”, dovuto alle proprietà inebrianti della droga. Quest’ultima, fumata spesso miscelata al tabacco, provoca inizialmente una sensazione di euforia, benessere, eccitazione intellettuale, a cui segue una fase caratterizzata da allucinazioni, perdita della concezione del tempo e dello spazio, sdoppiamento della personalità; subentra quindi un sonno profondo e qualche volta il coma.

Nella medicina antica la Cannabis era utilizzata per via topica come analgesico e antisettico: più recentemente, sottoforma di tintura ed estratto, è impiegata per via sistemica come sedativo e per uso topico come antisettico e contro le bruciature.

Nei climi temperati la Cannabis è coltivata per la fibra  (la canapa) e per l’estrazione di un olio essicativo; il contenuto di principi attivi nella droga, infatti, è drasticamente ridotto rispetto alle piante coltivate nei climi originali, soprattutto in quelle di seconda generazione e generazione successive. L’olio, estratto dai semi, è ricco in acido linoleico e non possiede effetti psicoattivi; è impiegato sia nell’industria alimentare sia nella formulazione di prodotti cosmetici.

La Cannabis contiene più di 400 composti chimici, di cui i più importanti sono rappresentati dai cannabinoidi, molecole formate da un terpene unito ad un resorcinolo, oppure, secondo una nomenclatura diversa, da un sistema ad anello benzopiranico. Il contenuto in cannabinoidi delle piante coltivate a climi temperati, nate da semi di piante coltivate in climi tropicali (prima generazione) è simile a quello delle piante originarie.

I cannabinoidi sono circa una sessantina, fra questi il composto psicoattivo più importante è il tetraidrocannabinolo  (TCH), in particolare l’isomero delta-9-tetraidrocannabinolo (delta-9-THC oppure delta-1-TCH a seconda della nomenclatura), noto come dronabinolo nella forma sintetica (autorizzato per il trattamento dell’emesi da chemioterapia). Altri composti identificati sono il cannabidiolo (CBD), il cannabigerolo (CBG), il cannabinolo (CBN, prodotto di ossidazione del THC e marker dello stato di deterioramento della droga), il cannabicromene (CBC) e l’olivetolo, precursore dei cannabinoidi (Evans, 1997).

Il cannabidiolo (CBD) possiede attività analgesiche e antinfiammatorie mediate dall’inibizione della ciclossigenasi e lipossigenasi; non possiede attività psicoattiva. Nei test in vitro e in vivo, l’azione antinfiammatoria è risultata diverse centinaia di volte superiore a quella dell’acido acetilsalicilico (Evans, 1991), ma dopo somministrazione orale, l’azione che predomina è quella mediata dall’inibizione della lipossigenasi. In vitro, il cannabidiolo stimola il rilascio della prostaglandina PGE2 dalle cellule sinoviali, analogamente a tetraidrocannabinolo e cannabinolo (Evans, 1991); inibisce la sintesi del leucotriene TXB4 nelle cellule polimorfonucleate, analogamente a tetraidrocannabinolo (Formukong et al., 1991). Il cannabinolo condivide con il tetraidrocannabinolo gli effetti centrali, anche se di minor entità; il cannabigerolo è un inibitore della lipossigenasi, ma non della ciclossigenasi; l’olivetolo è un inibitore della ciclossigenasi, ma non della lipossigenasi (Evans, 1991).

I terpenoidi contenuti nella Cannabis sativa comprendono il beta-mircene, il beta-cariofillene, il d-limonene, il linalolo, il pulegone, l’1,8-cineolo, l’alfa-pirene, l’alfa-terpineolo, il terpinen-4-olo, il p-cimene, il borneolo, il delta-3-carene, il beta-farnesene, l’alfa-selinene, il fellandrene e la piperidina.

I flavonoidi principali contenuti nella Cannabis comprendono l’apigenina, la quercetina e la cannaflavina.

Come per tutte le droghe vegetali, anche per la Cannabis l’effetto della droga si differenzia da quello dei singoli principi attivi, in particolare è stato evidenziato come con il tetraidrocannabinolo sia prevalente la componente euforica, mentre con la droga “in toto“ quella sedativa (De Witt, Wachtel, 1999); come il cannabidiolo non possieda attività psicotropa, ma ansiolitica e sia in grado di attenuare l’ansietà indotta dal tetraidrocannabinolo; come, sempre il cannabidiolo, induca un aumento dei livelli di tetraidrocannabinolo e di altri farmaci nel tessuto cerebrale (in vivo) (Zuardi et al., 1982; Bornhein, Reid, 1999).

In ambito terapeutico, i possibili impieghi della Cannabis spaziano dal trattamento del dolore cronico, alla nausea da chemioterapia, all’anoressia nell’AIDS, al glaucoma, alla spasticità e al tremore associati alla sclerosi multipla, alla protezione dei neuroni dai danni provocati da ictus o patologie degenerative. L’impiego della Cannabis o dei cannabinoidi nelle malattie psichiatriche è fortemente limitato dal fatto che tale droga induce, piuttosto che alleviare, i comportamenti psicotici.

Sono stati individuati due recettori specifici per i cannabinoidi, CB1 e CB2; il primo presente nel sistema nervoso centrale (corteccia cerebrale, ippocampo, striato e cervelletto), nei neuroni periferici e in tessuti non neuronali (ghiandole adrenaliche, cuore, polmone, organi riproduttivi, vescica, tratto gastrointestinale), il secondo per lo più nelle cellule del sistema immunitario, inclusi i macrofagi, nella zona periferica della milza, nel pancreas e nei tessuti linfoidi (Mechoulam et al., 1994). Pur non essendo diffuso nel SNC, il recettore CB2 si trova anche in alcuni neuroni centrali.

Recentemente è stato provato che la stimolazione combinata del CB2 e del CB1 fa si che il primo potenzi gli effetti antiemetici del secondo riducendone quelli psicotropi. La stimolazione recettoriale induce un effetto inibitorio sulla trasmissione nervosa, che si manifesta con la riduzione intracellulare della sintesi di cAMP (adenosina monofosfato ciclica; il cAMP raprresenta uno dei principali “secondi messageri“ nei processi di trasduzione del segnale all’interno della cellula), la diminuzione della conduzione dei canali del calcio ed l’incremento nei canali del potassio.

I recettori CB1 e CB2 non presentano lo stesso grado di omologia, come invece si verifica per altri recettori quali quelli per gli oppioidi.

Alla scoperta dei recettori ha fatto seguito quella di ligandi endogeni, di cui i più importanti sono l’anandamide e il 2-arachidonilglicerolo, correlati alla famiglia delle prostaglandine. Gli endocannabinoidi modulano l’attività nei sistemi cerebrali coinvolti nel tono di umore, memoria e funzioni cognitive, controllo motorio, dolore, attività endocrina e cardiovascolare e altre funzioni vitali. In particolare è stato osservato come l’inibizione del trasporto attivo transmembrana dell’anandiamide, il ligando endogeno più importante, sembra associato ad analgesia e vasodilatazione periferica  (Goutpoulos, Makriyannis, 2002).

Il tetraidrocannabinolo tende a distruggere i sistemi cerebrali in cui sono coinvolti gli endocannabinoidi. Inoltre, a differenza dell’anandamide, che è rilasciata localmente ed è caratterizzata da un’emivita molto breve (alcuni minuti), il tetraidrocannabinolo si diffonde in tutto il tessuto cerebrale dove si accumula e viene eliminato lentamente. A causa della ricaptazione (up take) nel tessuto lipidico, la quantità di tetraidrocannabinolo contenuto in una sigaretta richiede circa 30 giorni per essere smaltito.

La diversa collocazione dei due tipi recettoriali, CB1 e CB2, spiega il ruolo e gli effetti dei cannabinoidi evidenziati a livello centrale e del sistema immunitario. In quest’ultimo ambito, l’attività dei cannabinoidi sembra dose-specifica: attivazione del sistema a basse dosi e inibizione dello stesso a dosi elevate (inibizione di funzioni mediate da linfociti T e macrofagi). E’ stato inoltre osservato come l’azione a livello immunitario dei cannabinoidi tenda a spostare il sistema da un’immunità cellulo-mediata ad un’immunità umorale attraverso l’iperproduzione di citochine quali l’interleuchina-4 (Klein et al., 1998). Non solo, il tetraidrocannabinolo sopprime il rilascio di monossido di azoto (NO) dai macrofagi e il potenziale effetto inibitorio dei cannabinoidi sulle cellule iperattivate della microglia nel SNC potrebbe essere correlato all’origine macrofagica/monocitica di tale cellule (Jeon et al., 1996; Bloom, 1996).

In vitro, il tetraidrocannabinolo ha evidenziato un effetto neuroprotettivo verso la tossicità da glutammato, tramite inibizione del rilascio presinaptico del glutammato stesso (l’eccessivo rilascio di glutammato dalle terminazioni nervose può causare morte cellulare per sovrastimolazione eccitatoria (Lipton, Rosenberg, 1994; Shen, Thayer, 1998).

I cannabinoidi hanno mostrato marcata attività antiossidante, correlata alla loro struttura chimica; queste molecole infatti possono agire come potenti agenti riducenti, in grado cioè di donare elettroni ad altre specie chimiche.

I cannabinoidi interagiscono con il sistema degli oppioidi endogeni, possono infatti incrementarne la sintesi o il rilascio e influenzare l’espressione del gene che codifica per questi analgesici naturali sia nelle zone del cervello coinvolte nella percezione del dolore sia in quelle del midollo spinale che regolano l’attività motoria e la secrezione pituitaria (Manzanares et al., 1999). L’effetto sinergico fra i due sistemi, cannabinoide e oppiaceo, è stato evidenziato in vivo con la somministrazione di tetraidrocannabinolo (THC) che ha permesso di ridurre la dose di oppioide necessaria ad indurre analgesia e lo sviluppo della tolleranza alla morfina.

A livello cardiovascolare gli effetti prevalenti della Cannabis sono rappresentati da tachicardia e ipotensione ed è probabile che nelle manifestazioni di sepsi e shock emorragico l’ipotensione marcata sia sostenuta dall’attivazione di un sistema periferico endocannabinoide.

L’impiego terapeutico della Cannabis presenta diverse problematiche sia di carattere etico (la Cannabis è classificata come stupefacente) sia di carattere più propriamente clinico-farmacologico (il “fumo” come via di somministrazione elettiva; la difficoltà nella valutazione dell’effetto placebo per l’impossibilità di somministrare in “cieco”; la standardizzazione del contenuto in principi attivi).

Emesi
L’azione antiemetica della Cannabis rappresenta la più utilizzata in ambito terapeutico, come dimostra la registrazione per quest’indicazione di due analoghi sintetici del THC, il dronabinolo, isomero 9-delta-tetraidrocannabinolo, e il nabilone, derivato cannabinoide. L’efficacia farmacologica dei derivati cannabinoidi nel trattamento dell’emesi da chemioterapia è risultata superiore a quella di proclorperazina in monoterapia e l’associazione cannabinoide-proclorperazina è risultata equivalente a metoclopramide a dosaggio elevato oppure a desametasone. In quest’ultimo caso, la preferenza soggettiva dei pazienti è stata data alla combinazione contenente il cannabinoide (Cunningham et al., 1988).

Anoressia
La stimolazione dell’appetito associata al consumo di Cannabis ha rappresentato lo spunto iniziale per un potenziale ruolo terapeutico della droga nelle patologie caratterizzate da marcata anoressia (es. AIDS). Risultati positivi infatti sono stati ottenuti con l’impiego del dronabinolo, isomero 9-delta del tetraidrocannabinolo (5 mg/die) in pazienti affetti da HIV (Beale et al., 1995).

Sclerosi multipla
La sclerosi multipla è una patologia degenerativa accompagnata da spasticità muscolare, dolore, tremore, problemi di equilibrio, fatigue e incontinenza. La somministrazione della Cannabis in vivo è stata associata ad una riduzione del tremore, confermata anche dai dati clinici, sebbene in un numero limitato di pazienti (Clifford, 1983). Il beneficio terapeutico dei cannabinoidi è stato evidenziato anche in caso di spasticità (tetraidrocannabinolo, 7,5 mg) (Brenneisen et al., 1996; Ungerleider et al., 1987).
In pazienti affetti da sclerosi multipla, il consumo di Cannabis (fumo) è risultata efficace nel ridurre la percezione soggettiva del dolore cronico del 90% e della nevralgia da trigemino del 70% (Consroe et al., 1997).
In un altro trial, la somministrazione orale di Cannabis (estratto) oppure di tetraidrocannabinolo (THC) è stata correlata ad un miglioramento soggettivo della spasticità, degli spasmi, del dolore e della qualità del sonno in più del 50% dei pazienti trattati di età compresa fra 18 e 64 anni (durata del trattamento: 15 settimane). Il tetraidrocannabinolo inoltre ha determinato un’incremento della mobilità dei pazienti, misurata come tempo impiegato per compiere una camminata di 10 metri. Né l’estratto di Cannabis né il tetraidrocannabinolo hanno però modificato la spasticità muscolare misurata dalla scala di Ashworth (misurazione oggettiva della spasticità) (Thompson et al., 2003). In un altro studio placebo-controllato, di durata pari a 6 settimana, la somministrazione dell’estratto standardizzato di Cannabis è risultata efficace nel ridurre il punteggio del Numerical Rating Scale per la spasticità (endpoint primario dello studio) (p=0,048), evidenziando un trend favorevole, ma non statisticamente significativo, anche per gli esiti clinici secondari di valutazione del grado di spasticità (Ashworth Score) e dell’intensità dello spasmo (misura soggettiva) (Collin et al., 2007).
In uno studio osservazionale non randomizzato, in aperto, non controllato, l’associazione tetraidrocannabinolo/cannabidiolo (1:1) in formulazione spray, somministrata per 40 settimane, è risultata efficace nel trattamento della spasticità (riduzione di 2,5 punti della scala di misurazione utilizzata, la Numerical Rating Scale o NRS, p<0,0001) e ha evidenziato miglioramenti significativi anche per la disfunzione vescicale (punteggio utilizzato: International Prostatic Symptoms Score, p = 0,001) e il dolore (scala utilizzata: NRS, p = 0,011). Il 36,2% dei pazienti ha interrotto la terapia; l’incidenza degli eventi avversi è risultata essere del 40,2%. Considerando l’esito clinico principale, la riduzione (30%) della spasticità osservata dopo il primo mese di terapia si è mantenuta per tutta la durata dello studio e i benefici migliori sono stati riscontrati nei pazienti che presentavano un punteggio di disabilità (Expanded Disability Status Scale, EDSS) iniziale più basso. Per quanto riguarda l’impatto sul dolore, l’estratto standardizzato di Cannabis è risultato efficace come terapia analgesica in pazienti che non erano riusciti ad ottenere una risposta antalgica soddisfacente con altre tipologie di farmaci (Paolicelli et al., 2015)

Epilessia
Nei pazienti epilettici la somministrazione della Cannabis è stata associata ad una riduzione della severità e della frequenza degli attacchi epilettici rispettivamente del 65% e 54%.

In uno studio di piccole dimensioni su pazienti con crisi epilettiche il cannabidiolo, una delle sostanze attive della cannabis, ha evidenziato efficacia terapeutica e buona tollerabilità. I pazienti arruolati nel trial clinico (213 persone) comprendevano adulti e bambini, alcuni dei quali affetti da gravi forme di epilessia infantile (sindrome di Dravet e sindrome di Lennox-Gastaut), considerate patologie rare. Ai pazienti è stato somministrato il farmaco in forma liquida (Epidiolex, farmaco orfano commercializzato da GW Pharmaceuticals) per tre mesi. Al termine dello studio è stata riscontrata una diminuzione media significativa (54%) della frequenza delle crisi epilettiche fra le persone che l’hanno portato a termine (137). In particolare la riduzione è stata pari al 53% nei pazienti affetti da sindrome di Dravet (23 persone) e pari al 55% nei pazienti con sindrome di Lennox-Gastaut (11 persone). Alcuni pazienti hanno riportato effetti collaterali in seguito ad assunzione del farmaco (diarrea, diminuzione di appetito, stanchezza) che in alcuni casi (12 persone) hanno determinato l’interruzione dello studio (Devinsky et al., 2015).

In seguito è stato condotto uno studio di fase 3 su 171 pazienti con un’età media di 15 anni, con sindrome di Lennox-Gastaut farmacoresistente (risultati, mediamente, non responsivi a 6 farmaci antiepilettici). Il cannabidiolo in forma liquida (specialità medicinale Epidiolex) è stato somministrato alla dose di 20 mg/kg/die, in associazione al trattamento antiepilettico in corso. È stata osservata una diminuzione del numero mensile di attacchi epilettici con caduta significativa (44%) rispetto a quella osservata con il placebo (22%). La frequenza di reazioni collaterali (soprattutto diarrea, sonnolenza, appetito scarso e vomito) è risultata accettabile, sebbene 12 pazienti abbiano abbandonato lo studio a causa di eventi avversi. I risultati suggeriscono, quindi, che il cannabidiolo potrebbe rappresentare una terapia per il trattamento della sindrome di Lennox-Gastaut non responsiva ai farmaci tradizionali.

In uno studio randomizzato, in doppio cieco, multicentrico, controllato con placebo, il cannabidiolo ha confermato la sua efficacia nel trattamento della sindrome di Dravet, grave forma di epilessia che compare nei bambini, durante il primo anno di vita, e che si accompagna a disabilità intellettiva e di sviluppo. Nello studio clinico, durato 14 settimane, sono stati arruolati 130 bambini e ragazzi (eta compresa fra 2 e 18 anni), trattati con cannabidiolo 20 mg/kg al giorno o placebo in aggiunta alla terapia antiepilettica standard. Al termine dello studio, nel gruppo trattato con cannabidiolo, è stata riscontrata una riduzione della frequenza degli attacchi epilettici del 39% che nel 5% dei pazienti ha portato alla scomparsa di attacchi per tutta la durata del trial (riduzione della frequenza mediana di attacchi per mese da 12,4 a 5,9 con cannabidiolo; da 14,9 a 14,1 con placebo). Nel gruppo placebo, nessun paziente è risultato libero da crisi epilettiche. La percentuale di pazienti che ha avuto una riduzione della frequenza delle crisi convulsive di almeno il 50% è risultata pari al 43% con cannabidiolo rispetto al 27% con placebo (odds ratio: 2,00; 95% CI: 0,93-4,30; p=0,08). Anche la frequenza di attacchi totali di tutti i tipi è risultata significativamente ridotta (p=0,03) con cannabidiolo, senza però una riduzione significativa degli attacchi non convulsivi. Circa il 62% dei pazienti trattati con cannabidiolo, rispetto al 34% di quelli del gruppo placebo, ha evidenziato miglioramenti per almeno una categoria sulla “seven-category Caregiver Global Impression of Change scale”. Per quanto riguarda la tollerabilità, l’incidenza di effetti collaterali è risultata pari al 93% vs 75% rispettivamente nel gruppo trattato e in quello placebo. Gli effetti collaterali che sono stati osservati con frequenza maggiore nel gruppo che assumeva cannabidiolo rispetto al placebo sono stati diarrea, vomito, fatigue, febbre, sonnolenza e anomalie nei livelli delle transaminasi epatiche. La percentuale di pazienti che ha interrotto il trial a causa degli effetti collaterali è stata più numerosa nel gruppo trattato con cannabidiolo (8 vs 1) (Devinsky et al., 2017).

L’Agenzia americana per i farmaci, Food and Drug Administration (FDA), ha attribuito la qualifica di farmaco orfano al cannabidiolo per il trattamento della sindrome di Lennox-Gastaut e per altre condizioni patologiche rare (trattamento della sindrome di Dravet, dell’encefalopatia neonatale ipossico ischemica, del glioma, della sindrome dell’X fragile, della sclerosi tuberosi, degli spasmi infantili, del glioblastoma multiforme, della schizofrenia pediatrica; prevenzione della malattia acuta da rigetto) (Food and Drug Administration - FDA, 2016). Nel 2018 l’FDA ha approvato la specialità medicinale Epidiolex, a base di cannabidiolo (contenente meno dello 0,1% di tetraidrocannabinolo) per il trattamento della sindrome di Lennox-Gastaout e della sindrome di Dravet nei bambini a partire dai due anni di età (Food and Drug Administration – FDA, 2018).

Morbo di parkinson
Il ruolo terapeutico ipotizzato per la Cannabis e i suoi principi attivi fa riferimento a due ipotesi complementari, la prima basata sull’inibizione del rilascio presinaptico di glutammato mediato dai recettori CB1, la seconda sull’attività antiossidante dei cannabinoidi.
Sia la sovrastimolazione eccitatoria indotta dal rilascio di quantità eccessive di glutammato sia lo stress ossidativo causato dalla formazioni di radicali liberi dell’ossigeno sono coinvolti nello sviluppo della malattia del parkinson.
L’attivazione dei recettori ionotropici del glutammato stimola l’afflusso di ioni calcio nella cellula nervosa, che a sua volta può dare adito a tutta una serie di processi potenzialmente dannosi per l’integrità cellulare, fra cui l’attivazione della NO-sintetasi che può portare alla formazione di NO citotossico e perossinitrile (Akaike, 1994; Beal, 1998).
Lo stesso catabolismo della dopamina potrebbe risultare “pericoloso” per i neuroni dopaminergici in presenza di una deficienza, ereditaria o acquisita, dei meccanismi cellulari antiradicali liberi. Infatti la conversione della dopamina in acido 3,4-diidrossifenilacetico, catalizzata dalla monoamino ossidasi (MAO), genera idroperossido (H2O2). Quest’ultimo in presenza di specie ioniche allo stato ridotto, come il ferro2+, può decomporsi e formare radicali liberi dell’ossigeno. Quest’ipotesi è supportata dall’osservazione di un incremento dei lipidi idroperossidi a livello del tessuto nervoso centrale nei pazienti affetti da parkinson. E’ stato anche osservato però come la supplementazione di antiossidanti (vitamina E) e MAO-inibitori (selegilina), di fatto, non siano in grado di esercitare un’azione neuroprotettiva sostanziale (parkinson’s Study Group, 1993).
In trial clinici di piccole dimensioni, il cannabidiolo ha indotto degli effetti moderati nel controllo dei movimenti distonici e nella sindrome di Meige (Consroe et al., 1986; Snider, Consroe, 1984); effetti di piccola entità sul tremore associato al parkinson (sigarette contenenti 1 g di Cannabiscon il 2,9% di tetraidrocannabinolo) (Frankel et al., 1990).

Analgesia
La regolazione del dolore da parte dei cannabinoidi implica oltre a processi sovraspinali, anche meccanismi che coinvolgono strutture più periferiche, neuroni spinali e tessuto cutaneo. Gli endocannabinoidi modulano, infatti, la soglia basale del dolore a livello spinale dove è presente un’elevata concentrazione di recettori CB1 sulle afferenze nocicettive. Una ridotta attività di questo circuito spinale provoca iperalgesia, cioè una risposta più intensa di quella attesa ad un determinato stimolo doloroso.
I cannabinoidi inducono analgesia senza provocare depressione respiratoria per l’assenza di recettori specifici nelle aree cerebrali deputate al controllo del respiro. Il rischio di depressione respiratoria rappresenta invece un effetto collaterale ben noto della morfina e dei suoi derivati.
In diversi trial di piccole dimensioni, il tetraidrocannabinolo (15-20 mg) ha mostrato effetti analgesici comparabili a quelli della codeina (60-120 mg) e la somministrazione orale di estratti di Cannabis(contenenti 5 o 10 mg di tetraidrocannabinolo) in pazienti con febbre mediterranea familiare ha ridotto il consumo di morfina (Noyes et al., 1975; Holdcroft et al., 1997).
In altri trial, la somministrazione per os di tetraidrocannabinolo non è risultata più efficace del placebo nell’indurre analgesia sia in volontari sani (TCH, 20 mg) sia in pazienti che avevano subito isterectomia addominale (TCH, 50 mg) (Naef et al., 2003; Buggy et al., 2003).
Un ambito nel quale la Cannabissembra possa avere un ruolo importante è quello del dolore neuropatico, dolore che spesso è resistente al trattamento analgesico con antidolorifici tradizionali inclusi gli oppiacei. Oltre all’efficacia evidenziata in diversi modelli sperimentali di dolore neuropatico, di iperalgesia e allodinia (percezione di dolore in seguito ad uno stimolo innocuo), un’uso anedottico della Cannabisè stato riportato per il dolore associato all’arto fantasma dopo amputazione, per il dolore derivato da danno dei nervi, per il dolore cefalico.
Uno studio prospettico osservazionale, condotto su persone che assumevano oppioidi (fentanil, morfina, ossicodone, buprenorfina, metadone e idromorfone) per dolore cornico non oncologico (dolore di durata superiore ai tre mesi), ha evidenziato una sostanziale mancanza di efficacia della cannabis. I pazienti arruolati sono stati seguiti per 4 anni tramite interviste telefoniche o questionari autocompilati somministrati periodicamente. Al termine dei 4 anni, i pazienti che avevano utilizzato la cannabis hanno evidenziato punteggi più alti per gravità del dolore e interferenza del dolore, e punteggi più bassi di auto-efficacia nella gestione del dolore rispetto ai pazienti che avevano utilizzato solo gli oppioidi (Campbell et al., 2018).
La Cannabis ha mostrato efficacia anche nel trattamento di patologie reumatiche: in pazienti con artrite reumatoide, la droga è stata associata ad un miglioramento significativamente superiore a placebo per severità del dolore, rigidità del risveglio e qualità del sonno. La droga potrebbe essere utilizzata nel trattamento del dolore miofasciale (azione antispastica della Cannabis) e nella fibromialgia.

Sindrome de la Tourette
La sindrome de la Tourette è causata da alterazioni biochimiche che in parte coinvolgono i gangli della base. Anatomicamente questi gangli, situati alla base del cervello comprendono nucleo caudato, putamenglobus pallidus, substanzia nigra e nucleo subtalamico.
La sindrome de la Tourette esordisce in età pediatrica ed è caratterizzata da tic semplici o complessi; ai tic motori spesso si associano i tic vocali, anomalie comportamentali inclusi comportamenti di tipo ossessivo.
Nei gangli basali alcune vie utilizzano la dopamina quale neurotrasmettitore; infatti la somministrazione di metilfenidato, agonista dopaminergico, acuisce la sintomatologia della sindrome de la Tourette.
E’ stato ipotizzato che l’attivazione del recettore CB1 da parte della Cannabis inibisca neuroni dopaminergici probabilmente coinvolti nello sviluppo della sindrome de la Tourette in quanto il consumo della droga (fumo) è stato correlato ad una attenuazione sia dei tic motori sia vocali. Analoga osservazione è stata fatta anche per il tetraidrocannabinolo (THC), uno dei principali componenti della Cannabis. La somministrazione di THC (10 mg) ad un paziente affetto da sindrome de la Tourette ha determinato un miglioramento dei sintomi già dopo 30 minuti dall’assunzione del cannabinoide, miglioramento che si è mantenuto per circa 7 ore (Muller-Vahl et al., 1998 e 1999). Analoghi risultati sono stati osservati in un gruppo di 24 pazienti trattati con THC per 6 settimane (dose iniziale: 2,5 mg/die; dose massima: 10 mg/die) (Muller-Vahl et al., 2003).

Nevrosi
I dati di letteratura relativi all’uso/abuso di Cannabisin pazienti affetti da nevrosi, (depressione, disordini bipolari, psicosi, etc.) forniscono risultati contrastanti.
In caso di depressione, la Cannabisha evidenziato effetti antidepressivi in alcuni pazienti, mentre in altri è risultata associata ad attacchi di ansietà (Gruber et al., 1996; Fishman et al., 1988).

Recentemente è stato condotto uno studio di real life utilizzando i dati raccolti da una app (Strainprint) tramite la quale chi utilizza la cannabis terapeutica può mettere in correlazione variazione del sintomo (prima e dopo l’uso della cannabis), tipologia di cannabis utilizzata e numero di “boccate” o “tiri” di cannabis. Lo studio ha valutato gli effetti nella quotidianità, non in laboratorio, della cannabis terapeutica su ansia, depressione e stress (Cuttler et al., 2018). I risultati, raccolti da circa 12mila utilizzatori della app, hanno evidenziato una riduzione del carico di ansia, depressione e stress nel breve termine. Gli effetti su stress e depressione non hanno registrato differenze di genere, mentre per l’ansia, l’effetto percepito è risultato significativamente maggiore nelle donne. La combinazione del contenuto di THC e CBD ha influenzato gli effetti della droga in relazione ai diversi sintomi: una cannabis povera di THC (< 5,5%), ma ricca di CBD (> 9,5%) è risultata migliore nel ridurre i sintomi della depressione, mentre una cannabis con elevate percentuali di THC (> 26,5%) e di CBD (> 11%) ha ottenuto un effetto maggiore nel ridurre lo stress. L’effetto sull’ansia è risultato indipendente dal contenuto reciproco di THC e CBD. Altro dato importante emerso dallo studio ha riguardato la relazione dose-effetto percepito. Per lo stress è stata riportata una relazione dose-effetto lineare: più il numero di “boccate” era alto più l’effetto è stato maggiore (dieci “boccate” hanno determinato la variazione maggiore sulla valutazione dello stress). Per l’ansia, la relazione riportata è risultata curvilinea, per cui una “boccata” è stata percepita come “meno efficace”, ma da due “boccate” in poi la variazione percepita è rimasta costante (due boccate hanno prodotto lo stesso sollievo di dieci). Infine, per la depressione, l’effetto della cannabis è risultato indipendente dal numero di “boccate”: una, due o dieci boccate non hanno fatto differenza sull’effetto percepito. I risultati dello studio non hanno evidenziato effetti di tolleranza soggettiva apparente (in linea con quanto osservato in altri studi sugli effetti psicomotori del THC). Ma mentre l’utilizzo ripetuto della cannabis non sembra modificare lo stato basale di ansia e stress, la depressione è risultata aumentare nel tempo. L’uso cronico di cannabis infatti riduce la disponibilità del recettore CB1 nelle aree corticali e questo è stato associato, in studi preclinici, allo sviluppo di un fenotipo molto simile a quello della depressione maggiore (Hirvonen et al., 2012; Gorzalka, Hill, 2011). Di fatto l’uso della cannabis per trattare la depressione potrebbe portare, sul lungo periodo, ad una maggiore suscettibilità alla depressione setssa. E’ anche vero, comunque, che gli effetti sul sistema endocannabinoide (riduzione del recettore CB1) negli utilizzatori cronici di cannabis sono reversibili dopo un breve periodo di astinenza dalla droga (D’Souza et al., 2016).

In caso di disordini bipolari, la Cannabisè stata utilizzata sia come sostitutivo dei farmaci tradizionali sia per ridurre la dose di questi ultimi (litio), ma i risultati ottenuti sono stati discordanti (Grinspoon, Bahalar, 1998).
Il legame fra consumo di Cannabise psicosi inizialmente era stato accertato solo per i pazienti predisposti a sviluppare la psicosi e in quelli sintomatici (Pope et al., 1995; Ries, 1993). Successivamente, è stato messo in evidenza che fra l’uso di Cannabisdurante l’adolescenza e il rischio di sviluppare psicosi nell’età adulta esiste una relazione dose-risposta e che tale rischio è più marcato nei soggetti predisposti (23,8% vs 5,6 % la differenza nel rischio nei pazienti “predisposti” e “non predisposti”) (Henquet et al., 2005).
E’ stato ipotizzato il coinvolgimento, nei meccanismi che portano allo sviluppo della psicosi, di un eventuale squilibrio nel segnale dei cannabinoidi endogeni. L’ipotesi sembrerebbe sostenuta anche da altre osservazioni quali l’aumento di anandamide e palmitil-etanolamide nei pazienti affetti da schizofrenia (Leweke et al., 1999) e l’analogia delle risposte nei test neuropsicologici eseguiti da volontari sani che utilizzavano la Cannabise pazienti schizofrenici (Emrich et al., 1997).

Glaucoma
La Cannabis per via inalatoria (fumo) provoca una diminuzione della pressione intraoculare di circa il 45% (Hepler, Frank, 1971); tale effetto sembra dovuto al tetraidrocannabinolo e il meccanismo d’azione coinvolgerebbe il sistema prostaglandinico piuttosto che quello dell’anidrasi carbonica (Maor et al., 1980). In caso di glaucoma l’azione ipotensiva della Cannabisè risultata paragonabile a quella associata ai farmaci indicati per questa patologia, con una durata d’azione minore, di 3-4 ore.

Demenza
Il trattamento di sintomi neuropsichiatrici (NPS) correlati alla demenza per somministrazione di tetraidrocannabinolo (THC), il principale costituente della cannabis, non è supportato da molte evidenze cliniche. L’uso della cannabis in questo ambito è stato preso in considerazione come un possibile trattamento farmacologico alternativo dal momento che i farmaci attualmente disponibili presentano svantaggi circa il rapporto rischio/beneficio e gli interventi non farmacologici hanno efficacia limitata e non sono facilmente applicabili nella pratica clinica. Molti studi preclinici supportano l’effetto protettivo del THC rispetto alla malattia di alzheimer, ma mancano evidenze su pazienti affetti da questo disordine neurodegenerativo. Alcuni studi preliminari mostrano un miglioramento degli stati di agitazione e dell’attività motoria notturna nei pazienti affetti da malattia di alzheimer dovuto alle proprietà analgesiche del THC. In uno studio volto a valutare efficacia e sicurezza, il tetraidrocannabinolo è stato somministrato per via orale alla dose di 4,5 mg in pazienti con demenza. Dopo 14 e 21 giorni sono stati valutati gli effetti del farmaco (e del placebo) sui disturbi del comportamento tramite il Neuropsychiatric Inventory (NPI), test comportamentale volto a valutare l’entità dei sintomi neuropsichiatrici correlati a varie patologie neurodegenerative. Sia il trattamento con THC sia quello con placebo hanno portato ad una riduzione di NPI rispetto al valore basale, ma la differenza tra i due non è risultata statisticamente significativa. Non sono stati riscontrati cambiamenti nei punteggi per l’agitazione, la qualità della vita, le attività di vita quotidiana. Inoltre il numero di pazienti che ha manifestato eventi avversi lievi o moderati è risultato simile. Il profilo di tollerabilità simile al placebo del tetraidrocannabinolo potrebbe indicare che il dosaggio di 4,5 mg/die di THC, somministrato in pazienti affetti da demenza, sia troppo basso per indurre effetti farmacologici (Vanden Elsen et al., 2015).

Sla
Nei pazienti con sclerosi multipla il trattamento con cannabinoidi ha mostrato ridurre i sintomi di spasticità; inoltre si è osservato che in modelli animali di sla (sclerosi laterale amiotrofica) la terapia ha rallentato il processo di perdita delle funzioni motorie. Sulla base di queste premesse è stato condotto uno studio clinico multicentrico di fase II su 60 pazienti affetti da sla, con sintomi di spasticità, randomizzati per ricevere il trattamento con tetraidrocannabinolo (THC) e cannabidiolo (CBD) in spray oromucosale, oppure placebo. È emerso che la terapia ha un effetto significativo nel migliorare la spasticità soggettiva, senza indurre effetti collaterali differenti da quelli già osservati nei pazienti con sclerosi multipla e, pertanto, attesi. Sono comunque necessari ulteriori studi per confermare i risultati ottenuti in questo studio iniziale di fase II (Congress of the European Academy of Neurology, 2016).