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Irbesartan

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Farmacologia - Come agisce Irbesartan?

L’irbesartan è un antagonista del recettore di tipo 1 (AT1) dell’angiotensina II; questa classe di farmaci sono identificati anche come sartani o ARB, secondo l’acronimo inglese Angiotensin Receptor Blockers. L’irbesartan è approvato per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della nefropatia diabetica in pazienti ipertesi con diabete di tipo 2. Negli USA è stato il terzo farmaco della classe dei sartani ad essere stato introdotto sul mercato nel 1997; nello stesso anno è stato approvato anche in Europa dall’Agenzia europea dei medicinali (EMA).

Irbesartan mostra selettività d’azione verso il recettore AT1 dell’angiotensina II: l’affinità per questo recettore è circa 8500 volte quella osservata per il recettore AT2. L’interazione con il recettore AT1 provoca vasodilatazione vascolare e previene la secrezione di aldosterone, determinando una riduzione della pressione arteriosa. L’irbesartan agisce bloccando tutti gli effetti dell’angiotensina II (gli ACE inibitori ad esempio bloccano la sintesi di angiotensina II mediata dall’’enzima ACE, ma non la formazione di angiotensina II, pur minoritaria, mediata da altre vie metaboliche) e provoca il conseguente aumento dei livelli plasmatici di renina (di circa 2 volte) e angiotensina II (di circa 1,5-2 volte) e una riduzione della concentrazione plasmatica dell’aldosterone.

L’irbesartan rallenta la progressione dell’insufficienza renale nei pazienti ipertesi con diabete di tipo 2 e migliora l’aterosclerosi correlata a diabete (Chen et al., 2018;Derosa et al., 2009).

L’irbesartan mostra attività di agonista parziale verso il recettore PPAR-gamma (recettore gamma attivato dai proliferatori dei perossisomi), anche se in misura notevolmente minore del telmisartan. In pazienti con rischio elevato di ipertensione per la presenza di almeno una complicanza quale malattia coronarica, malattia cerebrovascolare o diabete, la somministrazione di irbesartan per 12 settimane ha determinato benefici clinici sul metabolismo lipidico e glucidico dimostrando effetti antiossidativi e antinfiammatori: riduzione dei livelli di trigliceridi, della proteina C-reattiva e dei radicali reattivi dell’ossigeno; aumento del colesterolo HDL (High density Lipoprotein) e dell’adiponectina (i cui livelli correlano negativamente con la glicemia a digiuno, l’insulinoresistenza, il colesterolo LDL, i trigliceridi e l’acido urico) (Taguchi et al., 2013).

A livello cardiaco, l’irbesartan induce regressione della massa ventricolare sinistra in pazienti ipertesi con ipertrofia ventricolare e sembrerebbe apportare benefici emodinamici nei pazienti con insufficienza cardiaca (Markham et al., 2000).

L’irbesartan influenza la concentrazione plasmatica di acido urico né la secrezione urinaria di acido urico.

Ipertensione arteriosa
L’irbesartan esplica i suoi effetti antipertensivi legandosi ai recettori AT1 dell’angiotensina II, bloccando in questo modo la vasocostrizione indotta dal ligando naturale, l’angiotensina II.

L’effetto antipertensivo si manifsta in 1-2 settimane e raggiunge l’apice entro 4-6 settimane; l’effetto si mantiene costante nel tempo. La riduzione della pressione arteriosa dovuta all’irbesartan è dose-dipendente. Dosi di 150-300 mg una volta al giorno riducono i valori pressori rilevati in posizione supina o seduta con decrementi medi superiori di 8-13/5-8 mmHg (rispettivamente per valori sistolici e diastolici) rispetto a quelli rilevati con placebo. Il picco della riduzione pressoria dopo somministrazione di una dose è raggiunto entro 3-6 ore e l’effetto antipertensivo si mantiene per le 24 ore. L’interruzione improvvisa della terapia non provoca un effetto rebound: la pressione arteriosa ritorna gradualmente ai valori basali.

Nei pazienti con ipertensione lieve o moderata, la somministrazione di irbesatan (150-300 mg una volta al giorno) riduce i valori pressori con un effetto simile a enalapril, atenololo e amlodipina, maggiore del valsartan in termini di riduzione assoluta della pressione arteriosa e del tasso di risposta (Mrkham et al., 2000). Irbesartan determina una riduzione della pressione diastolica maggiore del losartan, ma minore di quella di olmesartan; riduce la pressione sistolica in misura uguale o superiore al losartan, simile all’olmesartan (l’affinità di irbesartan per il recettore AT1 è minore di quella dell’olmesartan, sovrapponibile a quella del valsartan, maggiore di quella esercitata dal losartan, la cui inibizione del recettore risulta transitoria e reversibile) (Croom et al., 2004). Con la dose di 150 mg/die, la pressione diastolica risulta controllata nel 56% dei pazienti (studi clinici di fase III) e fino al 77% dei pazienti in un ampio studio di fase IV (Markham et al., 2000).

Come osservato anche per altri farmaci attivi sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS), i pazienti ipertesi di etnia nera rispondono meno bene a irbesartan rispetto ai pazienti di etnia bianca.

Irbesartan più idroclorotiazide
L’associazione con il diuretico idroclorotiazide (in commercio sono disponibili combinazioni a dose fissa) potenzia l’azione antipertensiva dell’irbesartan. In pazienti che non controllano i valori pressori con il solo sartano, la combinazione irbesartan/idroclorotiazide (150/12,5 mg) è risultata più efficace di valsartan/idroclorotiazide (80/12,5 mg) e almeno sovrapponibile a losartan/idroclorotiazide (50/12,5 mg). In pazienti con ipertensione moderata o severa, l’associazione irbesartan/idroclorotiazide permette di raggiungere più rapidamente l’abbassamento dei valori pressori rispetto alla monoterapia con irbesartan e di ottenere una risposta terapeutica (target pressorio ottimale) in una percentuale più alta di pazienti con ipertensione severa (Bramlage, 2009).

Irbesartan più amlodipina
Nei pazienti ipertesi in monoterapia con irbesartan che non riescono a controllare in maniera ottimale i valori pressori l’aggiuna di amlodipina consente di ottenere una risposta terapeutica più soddisfacente. L’aggiunta del calcio antagonista (5 mg) a irbesartan (300 mg) ha portato ad un aumento quasi doppio della percentuale di pazienti con pressione arteriosa controllata (Bobrie, I-ADD Study Investigators, 2012). La combinazione a dose fissa irbesartan/amlodipina è risultata più efficace anche rispetto alla monoterapia con amlodipina (Bobrie, I-COMBINE Study Investigators, 2012). La combinazione dei due farmaci ha mostrato inoltre un effetto favorevole sui livelli di acido urico (riduzione) e colesterolo (diminuzione del colesterolo LDL ed aumento del colesterolo HDL) (Yagi et al., 2015).

In due studi clinici randomizzati, in doppio cieco, condotti in Corea, l’aggiunta dell’amlodipina alla terapia con irbesartan ha determinato una riduzione della pressione sistolica media da seduto dopo 8 settimane pari a -14,78 mmHg vs -21,47 mmHg vs -8,61 mmHg rispettivamente con irbesartan/amlodipina 150/5 mg e 150/10 mg e irbesartan 150 mg più placebo in uno studio clinico; pari a -13,30 mmHg vs -7,19 mmHg rispettivamente con irbesartan/amlodipina 300/5 mg e irbesartan 300 mg più placebo nell’altro studio clinico. In entrambi gli studi clinici l’aggiunta della amlodipina non ha comportato un aumento degli eventi avversi rispetto al placebo (Lee et al., 2024).

In uno studio prospettico, randomizzato, in aperto, sono stati confrontati due regimi terapeutici di seconda linea, successivi alla terapia standard sartano più calcio antagonista: sartano più calcio antagonista a dose elevata vs sartano più calcio antagonista più diuretico. I pazienti con valori pressori non soddisfacenti nonostante la terapia con sartano più amlodipina 5 mg sono stati trattati con irbesartan 100 mg/amlodipina 10 mg oppure con sartano/amlodipina 5 mg/indapamide 1 mg. L’esito clinico principale era la variazione della pressione sistolica e diastolica dopo 12 settimane di terapia, mentre esiti clinici secondari comprendevano variazione della pressione arteriosa dopo 24 settimane e andamento di alcuni valori di laboratorio, tra cui i livelli di acido urico e di potassio nel sangue. Entrambi i regimi antipertensivi hanno mostrato efficacia sovrapponibile nel ridurre ulteriormente i valori pressori sia di massima che di minima dopo 12 e 24 settimane e la frazione di pazienti che ha risposto alla terapia è risultata simile nei due gruppi di trattamento (66,7% vs 65,9% dopo 12 settimane, rispettivamente con dose elevata di amlodipina o con l’aggiunta di diuretico; 75,0% vs 80,5% dopo 24 settimane). Per quanto riguarda i test di laboratorio, la concentrazione di acido urico è risultata significativamente più alta e quella di potassio tendenzialmente più bassa dopo 12 settimana nel gruppo trattato con il diuretico (acido urico e potassio rispettivamente pari a 5,1 mg/dL e 4,1 mEq/L nel gruppo trattato con irbesartan/amlodipina vs 6,3 mg/dL e 3,9 mEq/L nel gruppo trattato con sartano/amlodipina/indapamide). la differenza di concentrazione dell’acido urico si è mentenuta anche dopo 24 settimane di terapia (5,0 mg/dL vs 6,3 mg/dL rispettivamente senza e con indapamide) (Nakgawa et al., 2020).

Nefropatia diabetica
I reni intervengono nel controllo della pressione arteriosa e regolano il volume circolante aggiustando l’escrezione di acqua e sodio. La riduzione della pressione arteriosa nei pazienti ipertesi, a sua volta, salvaguardia la salute dei vasi sanguigni; in particolare, la riduzione della pressione glomerulare riduce l’escrezione urinaria di albumina (riduzione proteinuria) e preserva l’endotelio glomerulare con effetti protettivi sul rene. Nei pazienti diabetici la presenza di piccole quantità di albumina nelle urine (microalbuminuria) è un riscontro abbastanza frequente soprattutto se il diabete coesiste con l’ipertensione arteriosa. Nel tempo la microalbuminuria evolte a proteinuria e ques’ultima, se non trattata, a malattia renale terminale. I sartani sono risultati efficaci nella prevenzione della microalbuminuria nei pazienti ipertesi con diabete di tipo 2, confermando il loro ruolo di nefroprotezione nei pazienti con malattia renale conclamata o a rischio di malattia renale.

I benefici clinici dell’irbesartan in termini di nefroprotezione sono stati valutati in due ampi trial clinici, uno in pazienti con microalbuminuria (fase iniziale del danno renale) (Irbesartan microalbuminuria tipe 2 diabetes mellitus in hypertensive patients o IRMA 2]) e l’altro in pazienti con danno renale avanzato (The irbesartan diabetic nephropathy trial o IDNT]) (Lewis et al., 2001; Lehnert et al., 2003). L’azione di nefroprotezione è in parte indipendente dall’azione antipertensiva. Nei pazienti con microalbuminuria, la percentuale di pazienti in cui il danno renale è proggredito a nefropatia conclamata è risultato inferiore nel gruppo trattato con irbesartan (300 mg/die) rispetto al gruppo placebo. Nei pazienti già con nefropatia (studio IDNT), il rischio di raddoppiare la creatinina sierica è risultato significativamente più basso con irbesartan (300 mg/die) rispetto ad amlodipina (10 mg/die) o placebo. L’analisi di sottogruppi ha evidenziato: 1) l’assenza di benefici renali nelle donne (32% del campione) e nei pazienti di etnia nera (26% del camione); un aumento dell’incidenza di infarto miocardico non fatale nelle donne rispetto agli uomini in cui questo evento ha mostrato un trend in diminuzione (irbesartan vs placebo); un aumento dell’incidenza di infarmo miocardico non fatale e di ictus nelle donne (irbesartan vs amlodipina). La causa dei diversi esiti cardiovascolari correlati al sesso non è stata spiegata.

Fibrillzione atriale
L’ipertensione aretriosa rappresenta il fattore di rischio più frequente di fibrillazione atriale, che, a sua volta, è la forma di aritmia cardiaca più comune e fattore di rischio di ictus e insufficienza cardiaca.

Nei pazienti con fibrillazione atriale, irbesartan non è risultato efficace nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari (studio ACTIVE 1, Atrial Fibrillation clopidogrel trial with Irbesartan for Prevention of Vascular Events). I pazienti arruolati presentavano fattori di rischio per ictus e un’ipertensione arteriosa per la maggior parte sotto controllo. Lo studio prevedeva due esiti clinici principali: il primo composito per morte cardiovascolare, ictus o infarto miocardico; il secondo comprendeva il primo più l’ospedalizzazione per insufficienza cardiaca. Al termine dello studio (follow up medio di 4,1 anni) nessuna differenza è emersa tra irbesartan e placebo per entrambi gli esiti clinici principali. Solo l’ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (esito clinico secondario) ha mostrato una riduzione statisticamente significativa con irbesartan (2,7% vs 3,2% HR:0,86, p=0,02). In un’analisi post hoc, l’esito composito per ictus, TIA ed embolia sistemica è risultato statisticamente significativo per irbesartan (HR:0,87 p=0,02). Nei pazienti con ritmo sinusale al basale, l’irbesartan non ha ridotto l’ospedalizzazione per fibrillazione atriale. Il farmaco è risultato associato ad una maggior incidenza di ipotensione e disfunzione renale (Yusuf et al., 2011).

Insufficienza cardiaca e frazione di eiezione preservata
Nello studio I-PRESERVE (irbesartan in heart Failure with Preserved Ejection Fraction Study) i ricercatori hanno valutato gli effetti dell’irbesartan sulla mortalità e morbilità cardiovascolare in pazienti con insufficienza cardiaca e frazione di eiezione preservata (≥45%) che presentano un’attività della renina più alta del normale (persone sane). L’esito clinico principale dello studio era composito: mortalità per qualsiasi causa o ricovero per evento cardiovascolare (peggioramento dell’insufficienza cardiaca, infarto miocardico, ictus, angina instabile, aritmia atriale o ventricolare, infarto miocardico o ictus durante il ricovero). Gli esiti clinici secondari comprendevano i componenti dell’esito clinico princiapale, l’esito clinico composito per morte o ricovero per insufficienza cardiaca o morte improvvisa, l’esito clinico composito per morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale o ictus non fatale, la mortalità cardiovascolare, la variazione del punteggio della scala Minnesota Living with Heart Failure e la concentrazione plasmatica del peptide natriuretico NT-proBNP (N-terminal proB-type natriuretic peptide), indice di gravità dello scompenso. Al termine dello studio, i dati non hanno mostrato benefici clinici attibuibili all’irbesartan (titolazione del dosaggio fino alla dose massima di 300 mg/die): l’incidenza dell’esito clinico principale (36% vs 37%) così come la mortalità per qualsiasi causa (HR: 1,00) e il tasso di ricoveri per causa cardiovascolare (HR: 0,95) sono risultati simili tra i due gruppi di trattamento (irbesartan vs placebo). La stessa cosa è stata osservata per gli esiti clinici secondari. I pazienti trattati con irbesartan hanno evidenziato un maggior rischio di aumento dei livelli sierici di creatinina e di potassio. Non ci sono state differenze tra i due gruppi in termini di eventi avversi gravi e percentuale di pazienti che hanno interrotto la terapia per eventi avversi (16% vs 14%, p=0,07) (Massie et al., 2008).