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Vitamina D (Colecalciferolo)

Annister, Dibase e altri

Farmacologia - Come agisce Vitamina D (Colecalciferolo)?

La vitamina D esiste in due forme: la forma D2 e la forma D3.
La vitamina D2 (ergocalciferolo) è di origine vegetale e viene sintetizzata a partire dall’ergosterolo grazie all’azione dei raggi UV. La vitamina D3 (colecalciferolo) è la forma che si ritrova nell’organismo umano ed è una vitamina liposolubile, sintetizzata nella cute grazie all’azione che la luce solare esercita sul 7-deidrocolesterolo, oppure ingerita attraverso la dieta (il pesce come salmone, sgombro e aringa ne è ricco). La carenza di vitamina D è dovuta a una scarsa esposizione alla luce solare, oppure a problemi di assorbimento gastrointestinale.

Sia quando sintetizzata nella pelle, che quando ingerita con la dieta, la vitamina D subisce due processi di idrossilazione, prima nel fegato, in posizione 25 (25-idrossi-colecalciferolo o calcidiolo o calcifediolo; anche indicata come 25(OH)D), e poi nel rene, in posizione 1, per essere convertita nella forma attiva calcitriolo (1,25-diidrossicolecalciferolo) (Nair, Maseeh, 2012).

Quali livelli di 25-idrossi-colecalciferolo?
La comunità scientifica non ha ancora raggiunto unanimità nel definire i livelli di normalità/intervento/mantenimento per la vitamina D nel sangue. Gli Institutes of Medicine (IOM) statunitensi indicano come intervallo “desiderabile” una concentrazione di 25-idrossi-colecalciferolo di 20-40 ng/ml (Fuleihan et al., 2015). La definizione di “insufficienza” per livelli compresi tra 20 e 30 ng/ml, che spesso compare nei documenti di consenso delle società scientifiche spesso provoca trattamenti inappropriati. Il raggiungimento di target di almeno 30 ng/ml è raccomandato per le persone affette da osteoporosi e nelle donne in gravidanza (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2023).

Meccanismo d’azione della vitamina D
La funzione della vitamina D è molto importante per il regolare assorbimento del calcio a livello intestinale, per l’omeostasi della calcemia e per la mineralizzazione delle ossa; inoltre mostra delle proprietà antiinfiammatorie e regolatorie della risposta immunitaria, ha un ruolo nella regolazione della pressione sanguigna e dei livelli del glucosio, nell’inibizione della proliferazione e nella promozione della differenziazione delle cellule (Kulie et al., 2009).

Se la vitamina D è carente diminuisce l’assorbimento di calcio e fosforo e aumentano i livelli di paratormone (PTH), un ormone prodotto dalle ghiandole paratiroidi che stimola l’attività degli osteoclasti, cellule del tessuto osseo la cui funzione di erosione dell’osso aumenta i livelli di calcio in circolo. La carenza di vitamina D quindi può portare a problemi di rachitismo, osteopenia e osteoporosi (Holick, 2007). L’osteoporosi è una condizione di fragilità ossea accentuata, in cui la densità minerale ossea (DMO) del rachide o dell’anca è inferiore rispetto alla media di almeno 2,5 deviazioni standard. La supplementazione di vitamina D, aumentando l’assorbimento intestinale di calcio, ha un effetto terapeutico sulla condizione di fragilità ossea.

Vitamina D e frattura ossea
Le evidenze scientifiche supportano la supplementazione di vitamina D nella prevenzione e trattamento di rachitismo e osteomalacia e nei pazienti anziani ricoverati in stutture protette (lieve riduzione del rischio di frattura con dosi di vitamina D >800 UI/die). I trial condotti su campioni di popolazione non ricoverata in strutture non hanno evidenziato una riduzione del rischio di frattura associata a supplementazione di vitamina D statisticamente significativa. In una popolazione di entrambi i sessi (maschi >50 anni e donne >55 anni), sana, non selezionata in base a deficit di vitamina D, o a bassa massa ossea od osteoporosi, la supplementazione con vitamina D (2000 UI/die) non ha avuto effetti sul rischio di fratture osse rispetto al placebo (fratture totali HR 0,98; IC95% 0,89-1,08 p =0,70; fratture non vertebrali HR 0,97; IC95% 0,87-1,07 p =0,50; fratture dell’anca HR 1,01; IC95% 0,70-1,47 p =0,96). La supplementazione di vitamina D è risultata non efficace anche coniderando i sottogruppi del campione del trial con bassi livelli di 25-idrossi-colecalciferolo (401 pazienti con 25(OH)D <12 ng/ml; 2161 <20 ng/ml; 4270 <25 ng/ml) (LeBoff M.S. 2022). A conclusioni analoghe ha portato un altro trial clinico condotto in Europa su un campione di popolazione più anziana (età >70 anni): la supplementazione con vitamina D (2000 UI/die) per 3 anni in monoterapia o in associazione ad acidi grassi omega 3 e/o in associazione ad attività fisica non ha modificato il rischio di fratture non vertebrali (Bischoff-Ferrari et al., 2020).

Vitamina D e rischio cardiovascolare
Un altro aspetto dibattutto in campo medico riguarda l’eventuale effetto protettivo della vitamina D sul rischio cardiovascolare. Tale effetto sarebbe riconducibile all’azione della vitamina D sul sistema renina-angiotensina, sulla regolazione dell’infiammazione o direttamente su cuore e vasi (recettori della vitamina D sono presenti sulle cellule dell’endotelio vasale e sulle cellule muscolari cardiache). Gli studi clinici hanno dato esiti contrastanti. In uno studio clinico del 2008, condotto per 5 anni su pazienti con bassi livelli di vitamina D (25(OH)D <15 ng/ml), la carenza di vitamina D era associata ad un rischio statisticamente significativo di andare incontro ad un evento cardiovascolare nei pazienti ipertesi (Wang et al., 2008). In un altro studio della durata di 4 anni era emerso che i pazienti con livelli di vitamina D inferiori a 15 ng/mL erano maggiormente a rischio di sviluppare ipertensione rispetto a coloro con valori nella norma superiori a 30 ng/mL (Forman et al., 2007). Altri studi sperimentali più recenti però non hanno confermato i benefici della vitamina D in ambito cardiovascolare. In pazienti con insufficienza cardiaca, la supplementazione di vitamina D (4000 UI//die) non ha ridotto la mortalità per qualsiasi causa (esito clinico principale), ma è stata associata ad una maggiore necessità di sistemi di assistenza meccanica al circolo (MCS, mechanical circulatory sistems) (Zittermann et al., 2017). In un altro trial clinico placebo-controllato, con un follow up medio di 5,3 anni, la supplementazione di vitamina D (2000 UI/die) e acidi grassi omega 3 (1 g/die) non risultava associata a una riduzione dell’incidenza di un evento cardiovascolare maggiore (infarto miocardico, ictus, morte per cause cardiovascolari) (Manson et al., 2019). Analogo esito è emerso da una meta-analisi relativa a 21 studi sperimentali per un totale di più di 83 mila pazienti e da uno studio clinico condotto in uomini con età ≥60 anni e donne in post-menopausa con età ≥65 anni che ha confrontato due dosi di vitamina D, 1600 UI/die e 3200 UI/die con placebo (Barbarawi et al., 2019; Virtanen et al., 2022).

Vitamina D e disglicemia
Alterati livelli di glicemia (disglicemia) spesso sono associati a bassi livelli sierici di vitamina D (Gupta et al., 2011; Shankar et al., 2011; Pinelli et al., 2010). Alcune evidenze cliniche supportano l’ipotesi che la supplementazione di vitamina D possa avere un ruolo protettivo verso la progressione da disglicemia a diabete di tipo 2 (Lim et al., 2013; Friedman, 2011; Pittas et al., 2007). I meccanismi a sostegno di questa ipotesi includono sia il ruolo della vitamina D nel mantenere i livelli di calcio intracellulari sia un effetto diretto sulla funzione delle cellule beta del pancreas, compreso un aumento dell’espressione del recettore dell’insulina con conseguente miglioramento della risposta dell’insulina al trasporto di glucosio intrcellulare (Maestro et al., 2000).

Vitamina D e malattie autoimmunitarie
Poiché la vitamina D esercita un effetto sulla crescita e la differenziazione di alcune cellule del sistema immunitario (macrofagi, cellule dendritiche e linfociti), diversi studi clinici hanno indagato la relazione tra livelli di vitamina D e malattie autoimmunitarie, riscontrando un’associazione tra bassi livelli di vitamina e malattia (tiroiditi autoimmunitarie, lupus eritematoso sistemico, miastenia grave, sclerosi sistemica, riniti allergiche) (Bonaccorso, 2022; Taheriniya et al., 2021; Diaconu et al., 2021; Islam et al., 2019; Aryan et al., 2017). Ma gli studi che hanno valutato gli effetti di una supplementazione di vitamina D come potenziale terapia hanno dato esiti differenti che non consentono di trarre conclusioni definitive (Irfan et al., 2022; Zhang et al., 2021; Islam et al., 2019; Antico et al., 2012; Kriegel et al., 2011).

Vitamina D e tumore
Anche per quanto riguarda il tumore alcuni studi osservazionali hanno riportato un’associazione tra bassi livelli di vitamina D e aumentato rischio di tumore, in particolare per quello al colon-retto. Un potenziale effetto “antitumorale” della vitamina D potrebbe essere dovuto alla combinazione di due meccanismi: da una parte la capacità di inibire la proliferazione cellulare, dall’altro quella di promuovere la differenziazione terminale delle cellule, tuttavia un effetto preventivo della vitamina D rispetto alla trasformazione oncologica non è stato confermato. Anzi diversi studi clinici sperimentali che hanno indagato il rapporto tra supplementazione di vitamina D e rischio di tumore non hanno riscontrato benefici attribuibili alla vitamina. In uno studio prospettico che ha coinvolto pazienti con tumore alla prostata, la vitamina D non è risultata associata ad una riduzione del tumore; di contro livelli più alti di 25(OH)D sono risultati associati ad un aumento del rischio di malattia aggressiva (Ahn et al., 2008). In donne con età ≥55 anni (livello medio di 25 (OH)D pari a 32,8 ng/ml), la supplementazione con vitamina D (2000 UI/die) e calcio (1,5 g/die) non ha influenzato il rischio di tumore dopo 4 anni di terapia rispetto al placebo (Lappe et al., 2017). Nello studio clinico VITAL, la supplementazione con vitamina D (2000 UI/die) in prevenzione primaria per tumore non ha evidenziato una riduzione del rischio (Manson et al., 2019). In pazienti con tumore gastrointestinale la supplementazione con vitamina D in prevenzione secondaria non ha ridotto il rischio di ricaduta o morte, anche se nel sottogruppo di pazienti con livelli di 25(OH)D compresi tra 20 e 40 ng/ml la sopravvivenza libera da recidiva a 5 anni è risultata statisticamente più alta rispetto al placebo (Urashima et al., 2019).

Vitamina D e asma
Una revisione sistematica di alcuni studi clinici ha osservato che l’assunzione di vitamina D porta a una riduzione degli interventi di ospedalizzazione dovuti ad attacchi d’asma, pertanto è possibile che la vitamina D possa essere utile anche nel trattamento di questa patologia (Martineau et al., 2016). Una successiva meta-analisi relativa a 14 studi clinici controllati randomizati, pubblicata nel 2019, va nella stessa direzione riportando benefici clinici della vitamina D nel ridurre il tasso di esacerbazione dell’asma in pazienti con livelli di 25-idrossi-colecalciferolo inferiori a 30 ng/ml. In questo sottogruppo di pazienti, l’analisi dei dati ha evidenziato una riduzione del tasso di esacerbazione del 24% nei pazienti che avevano ricevuto una supplementazione di vitamina D (Wang et al., 2019). Analoghi risultati sono stati osservati nella popolazione pediatrica. In una meta-analisi di 35 studi clinici, i bambini con asma sono risultati avere livelli di 25-idrossi-colecalciferolo sinificativamente più bassi rispetto ai coetanei senza asma (21,7 ng/ml vs 26,5 ng/ml p=0,010). Nei bambini con asma la supplementazione con vitamina è stata associata ad una riduzione del tasso di esacerbazione della malattia rispetto al gruppo placebo (18,4% vs 35,9% p=0,002) (Wang et al., 2022). Di contro, una revisione sistematica di 15 studi clinici prospettici (6 per l’analisi quantitativa e 9 per quella qualitativa) non ha confermato la correlazione tra miglioramento dello status vitaminico nei bambini e maggior controllo della malattia asmatica (Nitzan et al., 2022).

Vitamina D e demenza
La demenza è una sindrome caratterizzata da una progressiva perdita delle funzionalità cognitive. I sintomi dipendono dal tipo di demenza (alzheimer, demenza vascolare, demenza frontotemporale, demenza a corpi di Lewy) e presentano un’ampia variabilità tra i pazienti. La ricerca ha individuato diversi fattori di rischio, alcuni non modificabili, come ad esempio l’età, fattori genetici o familiarità, altri modificabili, legati a malattie (obesità, ipertensione, diabete) o ad uno stile di vita non salutare (fumo, inattività fisica, consumo di alcol). Tra i fattori modificabili è stata inserita anche l’alimentazione, riconoscendo ad alcuni alimenti o sostanze un effetto neuroprotettivo (Li et al., 2021; Suh et al., 2020; Farina et al., 2017; Morris, 2016; Forbes et al., 2015; De Parigi et al., 2006). Una revisione sistematica ha analizzato i dati relativi all’impatto della supplementazione con vitamina D sulla funzionalità cognitiva. Nei 4 studi randomizzati placebo controllati, non è stato osservato un effetto protettivo attribuibile alla supplementazione con vitamina D su declino cognitivo o incidenza di demenza (Kang et al., 2021; Stein et al., 2011; Aspell et al., 2017; Rossom et al., 2012). Gli studi che hanno messo a confronto la supplementazione con vitamina D rispetto a nessun intervento o ad un intervento convenzionale hanno dato esiti contrastanti. Negli studi di durata limitata (<3 mesi), sono stati riscontrati miglioramenti nei punteggi dei test di valutazione delle funzioni cognitive (Mini Mental State Evaluation o MMSE, Cognitive Assessment Battery o CAB, Frontal Assessment Battery o FAB, Army Individual Test battery o TMTB) che non sempre hanno raggiunto però la significatività statistica rispetto al gruppo di controllo (Beauchet et al., 2019; Lee et al., 2019; Annweiler et al., 2012). Nell’unico studio di lunga durata (3 anni) considerato nella revisione la supplementazione con vitamina D (2000 UI/die) in pazienti adulti con almeno 70 anni di età, indipendentemente dalla presenza di comorbilità, non ha migliorato la funzionalità cognitiva (Bischoff-Ferrari et al., 2020). Risultati non univoci sono stati ottenuti in due studi che hanno confrontato dosaggi diversi di vitamina D. Nel primo studio, la somministrazione di 2000 UI/die per un anno è stata associata ad una performance migliore in termini di memoria visiva, memoria di lavoro e test di apprendimento rispetto ad un dosaggio inferiore, pari a 600 UI/die, o superiore, pari a 4000 UI/die. Ma il gruppo trattato con la supplementazione più alta di vitamina D è stato associato a tempi di reazione più brevi quando confrontato con il gruppo trattato con la dose più bassa (Castle et al., 2020). Nel secondo studio, la supplementazione con 2000 UI/die oppure 800 UI/die di vitamina D a persone con ameno 60 anni e un punteggio MMSA basale uguale o maggiore a 24 non è stata associata a differenze statisticamente significative del punteggio MMSA dopo due anni di trattamento (Schietzel et al., 2019). Recentemente un ulteriore studio prospettico di coorte di ampie dimensioni (>12mila pazienti) ha riportato una riduzione del 40% dell’incidenza di demenza in pazienti anziani (età media 71 anni) che assumevano vitamina D (qualsiasi formulazione: calcio-vitamina D, colecalciferolo, ergocalciferolo) rispetto a chi non assumeva integrazioni di vitamina D. I benefici maggiori sono stati osservati nelle donne rispetto agli uomini, in chi presentava funzionalità cognitiva nella norma rispetto a chi aveva un lieve decadimento e in chi non era poratore del gene APOEe4, fattore di rischo per alzheimer. I limiti dello studio – assenza di informazioni sulla dose di vitamina D, durata dell’esposizione alla vitamina D e livelli sierici di vitamina al basale – obbligano, comunque, a considerare con cautela i risultati ottenuti (Ghahremani et al., 2023).

Vitamina D e covid-19
Le evidenze scientifiche da studi sperimentali non supportano l’impiego della vitamina D nel trattamento dei pazienti con covid-19. In uno studio muticentrico, randomizzato, in dobbio cieco, placebo controllato, la somministraione di una singola dose di vitamina D3 (200mila UI) non ha ridotto la durata del ricovero (esito clinico principale) dei pazienti trattati. Inoltre, non sono state osservate differenze tra i pazienti trattati con la vitamina D e il gruppo placebo per incidenza di mortalità (differenza 2,5% p=0,43), ricovero in terapia intensiva (differenza -5,2% p=0,30) o ricorso alla ventilazione meccanica (differenza -6,8% p=0,09) (Murai et al., 2021).

Analoghi esiti sono emersi in due altri studi sperimentali. Nel primo, lo studio clinico CORONAVI, i ricercatori hanno indagato l’effetto della supplementazione di vitamina D (basso e alto dosaggio) in pazienti con livelli di 25-idrossi-colecalciferolo <75 nmoli/L sul rischio di infezioni respiratorie acute, incluso covid-19 (Jolliffe et al., 2022). Nel secondo studio, è stata presa in considerazione l’integrazione quotidiana della dieta con olio di fegato di merluzzo (5 ml/die corrispondente a 10 mcg di vitamina D) nei mesi invernali sull’incidenza dell’infezione di SARS-CoV-2, covid-19 grave o altre infezioni acute respiratorie (Brunvoll et al., 2022). Nessuno dei due studi ha evidenziato un effetto protettivo della supplementazione con vitamina D.